Nella mia vita ho maturato alcuni pensieri ricorrenti, che in certi momenti mi hanno aiutato ad accompagnare le vicende in cui mi sono ritrovata immersa: non pensieri paurosi, ma prodotti dell’immaginazione utili ad interpretare e sostenere alcuni bisogni profondi che per forza di cose non potevano trovare applicazioni nella realtà quotidiana. Uno di questi pensieri è incentrato sulla fantasia di potermi estraniare dal resto del mondo, vivere in una sorta di grotta attrezzata di tutto punto, nella quale poter svolgere in santa pace tutta una serie di attività, le più diverse, che mi avrebbero restituito alla compagine umana in una versione di me stessa decisamente migliore rispetto alla versione ordinaria: una sorta di make over fisico, psicologico e culturale (facciamo tutto insieme, tanto le fantasie non amano i limiti) dopo il quale la mia vita avrebbe marciato per sempre sulla corsia di sorpasso, senza fare più i conti con i piccoli e i grandi limiti dell’esistenza ordinaria.
Una versione minore di questa fantasia, una versione meno impegnativa dal punto di vista del distanziamento umano, è quella – decisamente più frequente, quasi quotidiana – di chi, come me, ogni tanto ha desiderato che il mondo si fermasse per qualche giorno soltanto, per “rimettersi in pari” con le pulizie di casa, i panni da stirare, gli armadi da riordinare, le ultime scatole del trasloco da spacchettare: col mondo fermo, anch’io sarei stata in grado di portare a termine tutto ciò che era rimasto indietro, senza temere il richiamo potente dei doveri del lavoro e della vita sociale: le mail a cui rispondere, gli adempimenti a cui dare risposta, i contatti da tenere, le visite da organizzare, gli incontri a cui è inopportuno mancare. Una volta raggiunto l’obiettivo, la mia fantasia ha sempre permesso al mondo di rimettersi in moto a comando, come se nulla fosse: l’unica differenza, una me sicuramente meno affannata, senza ricrescita ai capelli, con le unghie fresche di estetista, e tutto pronto in casa per affrontare le piccole e grandi sfide di ogni giorno. Niente di diverso, a pensarci bene, del sanissimo desiderio di ritagliarsi più tempo per sé, un tempo logorato e ridotto a brandelli dalle esigenze del vivere sociale.
Quando lo speleologo marchigiano Maurizio Montalbini nel 1986 condusse il primo esperimento di permanenza in grotta, ricordo di avere provato un interesse tutt’altro che tiepido per il caso di cui parlava la tv: c’era una grotta, c’era una super-attrezzatura che avrebbe tenuto occupato il protagonista, cibo e acqua a volontà, e soprattutto la sicurezza di un monitoraggio costante, che avrebbe permesso allo scienziato di interrompere l’esperimento in qualunque momento, nel caso in cui un malore lo esponesse al pericolo di vita.
La fantasia negli anni ha avuto modo di essere lavorata a suon di lima, fino ad assumere varianti piuttosto vicine alla realtà: la vita mi ha portato per un certo periodo di anni a condividere il mio destino con quello di un militare di carriera, che tra la seconda metà degli anni Novanta e la prima metà degli anni Duemila ha scelto di partecipare a numerose missioni italiane all’estero, con l’effetto di alternare periodi di normale presenza a casa a periodi di impegno fuori sede, durante i quali il massimo a cui potevamo sperare era una telefonata alla settimana. La lontananza del ricordo vela di odierna simpatia le difficoltà di comunicazione della prima missione in Somalia (era il 1994), quando il ponte radio che permetteva lo svolgimento delle telefonate ci costringeva a dire “Passo!” ad ogni frase, dopo la quale l’addetto alla comunicazione in ascolto pigiava qualche tasto o girava qualche manopola – chissà – per permettere all’altro di rispondere. “Come stai? Passo!” “Bene, e tu? Passo!” “Mi manchi molto. Passo!” “Anche tu, passo!”.
Ci furono dunque degli anni nei quali almeno per quella che era allora la persona più importante per me si era aperta una grotta che mi avrebbe permesso tutti quei cambiamenti e miglioramenti che desideravo, per poter riapparire al suo cospetto in modalità “brand new”: una persona nuova, tutta da scoprire.
Era una versione mignon della fantasia originaria, ma già da sola sufficientemente impegnativa da vivere. E ricordo bene di avere affrontato davvero, in uno di quei periodi di lunga lontananza, una lunga dieta in solitario, che mi avrebbe portato a perdere una ventina di chili, con l’effetto reale di restituire al consorte del tempo una moglie decisamente diversa da quella che aveva lasciato.
Più recentemente, mi è capitato di praticare la mia fantasia – anche stavolta in forma ridotta – quando, nella settimana di ferragosto, con il lavoro in pausa, le ferie firmate e il nuovo compagno in viaggio verso la famiglia d’origine, ho trascorso completamente da sola alcuni giorni speciali: il caldo vinto dai condizionatori accesi, il frigorifero pieno di leccornie, le gatte rosse sempre pronte a qualche gioco e a qualche coccola, il telefonino a disposizione per chiacchierare con chiunque avessi voglia (il mio compagno compreso, ovviamente). Un momento tutto per me, nel quale finalmente trovavo tutto il tempo per la crema per il viso, per un pediluvio rigenerante, per una sessione di decluttering radicale nell’armadio, per la lettura dei tanti libri incominciati e non finiti durante tutto l’anno. Uno spazio di riflessione, di riposo, di ascolto, di vuoto, di noia, di niente. Un lusso da vacanza ai Caraibi, senza spendere nemmeno un euro, con grande gioia del mio demone morigerato, parco e anche un po’ micragnoso (tranquilli: l’altro demone spendaccione è quello prevalente, l’economia è salva).
In quella settimana di ferragosto la reclusione a casa era una scelta desiderata: fatta salva la cura delle due gatte rosse, niente avrebbe potuto impedirmi di uscire, prendere un aereo e sdraiarmi davvero su una spiaggia dei Caraibi. Nemmeno il borsellino: forse il più potente tra i veri “padroni” della nostra vita, capace di dettare legge sui nostri desideri e persino sui nostri bisogni.
E poi arriva il Covid-19, che ci costringe tutti a casa. Io in particolare sono a casa dalle ore 16 di venerdì 13 marzo, dopo una settimana in cui le biblioteche sono state chiuse al pubblico e ci siamo industriati per usare questo tempo “morto” per riordinare e sistemare le ultime cose.
Parte lo “smart working”, o qualcosa che vuole assomigliargli senza riuscirci gran che: lavoriamo da casa usando i nostri computer e condividendo il programma di attività quotidiano. Alle due e mezzo nei giorni dispari e alle sei nei giorni pari ci salutiamo via mail e “torniamo a casa”, cioè chiudiamo il computer per dedicarci ad altro.
Eccola qui, la mia fantasia della grotta, in una versione speciale: una versione internazionale, giustappunto, e con tutti gli ingredienti più fortunati al loro posto: le gatte rosse come costante compagnia, il mio compagno presente la sera (perché lui continua a lavorare fuori), un frigo super-pieno, scorte a volontà, lo stipendio che corre lo stesso, internet ad alte prestazioni, 4 computer a disposizione (e siamo solo in due), pile di libri nuovi che continuo ad alimentare sia con l’acquisto solidale presso le librerie indipendenti di Pistoia, sia con l’acquisto più conveniente ma più egoistico su Amazon. I corrieri continuano a consegnare, e quindi lo sfogo dell’acquisto anche compulsivo continua ad essere garantito, non si sa fino a quando.
Eccola qui, la mia grotta in una casa che ora è molto più grande e più bella di tutte le case che ho avuto nella vita. Dalla terrazza vedo il verde delle colline pistoiesi e non sento volare una mosca. Nulla è cambiato da sempre: qui a San Felice la casa è posizionata verso la collina ed è lontana dalla strada. In termini di traffico non riesco a misurare la differenza tra quando la vita era normale e la vita di adesso.
Ora che sono davvero nella grotta, posso attuare al massimo stadio la mia fantasia. Se è vero che la realtà è fatta di presi e non di dati, ovvero – detto altrimenti – è l’effetto di ciò che facciamo di quello che capita – questa è davvero la mia occasione. Un mese fa ho cominciato un programma di educazione alimentare che mi ha portato a perdere un chilo la settimana: niente di meglio che proseguire su questa strada, aiutandomi – in assenza di alternative migliori – con la cyclette che mi è giunta in dono in questi giorni. Spingere sui pedali nell’arietta fresca della mattina, sulla terrazza della mia craft-room è quasi come fare una vera passeggiata in bicicletta.
E poi – al netto delle ore di lavoro, che comunque si prendono una buona parte della giornata e alimentano il mio “carico mentale” connettendomi alla vita là fuori – ci sono i tanti libri da leggere, il libro da scrivere, i progetti da sviluppare, le nuove strade da annusare prima di percorrerle davvero. Ho voglia di uscire da questa grotta (ma quando?) portando con me il risultato di un lavoro duro e focalizzato, per riprendere il mio percorso ordinario con una biografia non nuova di zecca (per carità: mi guardo bene dal buttare ciò che sono stata), ma lucente e almeno un po’ più sbrilluccica di quella di prima.