Un tempo i netturbini si limitavano a raccogliere l’immondizia prodotta dai residenti in un territorio, per conferirla in un luogo di raccolta, più o meno all’avanguardia in fatto di smaltimento differenziato. Ma c’è almeno una città al mondo in cui i netturbini fanno qualcosa di ancora più utile ed importante per i propri concittadini. Questa città è Ankara, capitale della Turchia. E gli operatori ecologici di cui parliamo sono protagonisti di uno speciale progetto culturale: quello che li ha visti, anni addietro, cominciare a mettere da parte i libri trovati nei cassonetti, per poi ordinarli in una vera e propria “biblioteca”, che col tempo ha raggiunto e superato la ragguardevole soglia dei 20.000 volumi.
Il web è ricchissimo di articoli su questa vicenda: tutti pronti, in perfetta unanimità, a raccontare la bella vicenda di libri che vengono sottratti al macero e si conquistano una seconda vita, fino a riabilitarsi del tutto sugli scaffali di una biblioteca che – nata dal punto più basso della scala sociale, e partita in sordina – oggi conta sulla solidarietà degli abitanti di tutta la zona, pronti a donare i propri libri per arricchire l’offerta di ciò che è diventato un vero e proprio centro culturale aperto a tutti.
Tutto bello, anzi bellissimo? Siamo di fronte ad un fulgido esempio di riciclo, promozione culturale, inclusione sociale ed economia circolare? Ognuno ha il diritto di pensarla come vuole. Da parte mia, voglio esercitare il mio diritto di critica, non unendomi all’unanime coro di congratulazioni nei confronti di questa esperienza di diffusione democratica della cultura. Perché una biblioteca non è il risultato di una accozzaglia casuale di libri, recuperati più o meno fortunosamente nei cassonetti (o nelle cantine da liberare, fate voi), ma nasce da un progetto culturale preciso, in base al quale si impiega un budget rinnovato costantemente per offrire una selezione di titoli passati al vaglio non da un netturbino, ma da un bibliotecario: cioè una persona che dispone delle competenze tecniche per valutare se il contenuto di ogni libro è aggiornato e adeguato alle esigenze del pubblico dei frequentatori, oppure merita di essere scartato, finendo giustappunto in quella raccolta differenziata della carta da cui è bene che non riemerga alla ricerca di una seconda chance. Perché una biblioteca pubblica è cosa diversa da una raccolta privata di libri, che nasce per soccorrere il gusto, i desideri, le manie di chi ha tutto il diritto di riempirsi la casa di gialli (di libri di cucina, di saggi filosofici: ad ognuno il suo!), senza minimamente tener conto dei gusti altrui o delle esigenze di equilibrare le disponibilità su argomenti per i quali non prova il minimo interesse. Perché gli utenti di una biblioteca pubblica hanno diritto a libri nuovi, aggiornati, puliti, con le copertine lucide e le pagine “croccanti”, e non debbono accontentarsi degli scarti altrui: e per questo i cittadini di Ankara, così come di qualunque altra città al mondo, hanno diritto ad una biblioteca vera, con un budget per gli acquisti garantito e costante.
Ciò che hanno creato i netturbini di Ankara non è una biblioteca: è una raccolta di libri sottratti ai cassonetti, che potranno pure essere letti da qualcuno, presi in prestito e poi restituiti dopo la lettura. Ma non è una biblioteca. Chiamiamola “punto di raccolta di libri”, “scaffale dei libri recuperati”. Ma non chiamiamola, per l’amor del cielo, “biblioteca”. Perché le parole sono importanti: e se la chiamiamo “biblioteca”, qualcuno rischia di pensare che quella sia davvero una biblioteca. E in un Paese come il nostro, che per oltre metà non conosce le biblioteche vere, e che per oltre metà non giudica l’assenza di biblioteche vere come una violazione di diritti fondamentali, diffondere l’idea che una esperienza del genere possa invitare all’uso della parola “biblioteca” ci allontana ancora di più dall’importante obiettivo di affermare l’importanza delle biblioteche per lo sviluppo delle comunità. Perché legittimerà l’idea che per colmare lacune così importanti e gravi basti appunto svuotare le cantine, portare i romanzi che non entrano più negli scaffali di casa, senza il benché minimo progetto culturale. Tutti noi siamo perfettamente in grado di distinguere un presidio ospedaliero dal nostro armadietto dei medicinali: riconosciamo la differenza non soltanto perché il nostro armadietto è piccolo e limitato ai farmaci che servono al nostro uso, ma perché abbiamo la consapevolezza che un presidio ospedaliero è fatto di personale specializzato, di strumenti, di spazi organizzati, oltre che di medicinali in grado di coprire il più ampio spettro d’intervento. Allo stesso modo, dobbiamo essere in grado di distinguere una biblioteca vera da una raccolta casuale di libri. E se pure ci càpita di chiedere una bustina di antidolorifico al nostro vicino di casa, per un inatteso mal di denti, non perdiamo la consapevolezza che quello alla salute è un diritto importante, rispetto al quale non siamo disposti a rinunciare. Ecco, la stessa cosa vale per le biblioteche. Bravi i netturbini di Ankara, per carità: ma la loro non è e non sarà mai, per fortuna nostra e anche loro, una vera biblioteca.