Ho aspettato tanto, troppo tempo prima di affrontare la lettura delle 500 pagine di “Becoming”, la biografia di Michelle Obama uscita nel 2018. Molti i motivi per una attesa così lunga: un libro di 500 pagine è destinato a risucchiare il tempo di lettura di un paio di settimane, e quando tengo tra le mani un libro troppo a lungo, finisco con il disamorarmi, con l’abbandonarlo. 500 pagine sono troppe per la me di adesso, con così poco tempo libero. E poi avevo paura: avevo paura di tenere tra le mani un libro hollywoodiano, di quelli dove si raccontano le magnifiche sorti degli happy few, dove tutto è perfetto, esattamente come nei film. Poi mi è capitata tra le mani la notizia della prossima uscita del nuovo libro di Michelle Obama, prevista per novembre 2022, dal titolo “La luce che è in noi”: una notizia che mi ha stuzzicato la voglia di leggere per tempo “Becoming”. E infine è arrivata la settimana di ferragosto: completamente libera da ogni impegno professionale e personale. Intere giornate passate a leggere, a riposare, ad accarezzare le gatte, a pianificare nuovi progetti. E così “Becoming” è entrato nel programma di letture, lasciandomi peraltro ancora tempo per altri libri: non l’ho letto, infatti, ma l’ho divorato. Intanto c’è da dire che è tradotto benissimo: Chicca Galli ha fatto un ottimo lavoro, perché ha restituito un testo scorrevolissimo ma non schiacciato su un registro linguistico basic. Il libro è ricco, e la “voce” di Michelle si sente benissimo. La paura di aver di fronte un libro hollywoodiano è sparita dopo la prima pagina.
La storia che Michelle racconta è di grande ispirazione e di grande speranza per ogni lettore, di qualunque razza ed estrazione sociale sia: ma è ancor più ispirativa, posso immaginare, per le ragazze di colore che hanno avuto in sorte un retaggio sociale basso e fanno i conti, ogni giorno, con un differenziale di opportunità difficile da colmare.
Michelle viene da Chicago Southside, un quartiere della classe media che negli anni Sessanta soffre gli effetti di una progressiva ghettizzazione, a causa del trasferimento spontaneo delle famiglie bianche: se la fotografia della prima elementare ritrae una classe mista, in quinta elementare i sorrisi appartengono tutti, invariabilmente, a ragazzi di colore. Il padre era un operaio del Comune addetto ai servizi idraulici, la madre era rimasta a casa per prendersi cura di lei e del fratello Craig. La sua storia è quella di una famiglia normale, che vive decorosamente con un solo stipendio, in un piccolo appartamento in affitto, contando sull’amore e la solidarietà dei parenti e dei vicini.
Michelle matura piena consapevolezza della problematica razziale e delle differenze economiche quando approda alla scuola Whitney Young, dove scopre “l’apparato del privilegio e delle relazioni che contano, una rete seminascosta di scale e corde di sicurezza sospesa sopra le nostre teste, pronta a collegare alcuni di noi, ma non tutti, con il cielo” (p. 78). Lei è una studentessa molto brava, perfezionista, predisposta ad eccellere: ha la percezione che l’istruzione, la scuola può essere il gancio che può issarla al sopra del proprio destino naturale.
Sulla sua strada alla Whitney Young trova una tutor che la invita a ridimensionare i suoi sogni puntati sull’Università di Princeton: non ne ha la stoffa, non ce la farà, l’ammonisce. Ma il giudizio sprezzante di quella donna otterrà proprio l’effetto contrario: non minerà la sua autostima, convincendola di non essere abbastanza, ma la spronerà ancora di più a lavorare duramente, con tutta la fatica che serve, per raggiungere il suo scopo: Princeton e poi la Law School di Harvard.
Divenuta avvocato, comincia a lavorare in uno studio legale di Chicago, dove incontra il giovane Barack Obama, anch’egli alle prese con l’avvio della carriera. Le loro storie si intrecciano quasi subito, portandoli fuori dagli studi legali (sicuramente molto più redditizi in termini economici) a favore di imprese sociali che rispondono più da vicino ai loro valori profondi: Michelle lavora prima per il Comune di Chicago, poi per l’Ospedale; Barack fa il coordinatore di comunità urbane. Entrambi sentono il bisogno di costruire il proprio successo personale e professionale sulle relazioni con le persone della propria comunitò.
La storia della prima campagna elettorale del 2008, poi dell’elezione di Barack alla Casa Bianca, confermata con il secondo mandato, è sicuramente la parte meno interessante del libro: forse perché più conosciuta. Ma anche in questo caso Michelle ha fatto la scelta di raccontarla dal proprio punto di vista, di moglie e di madre, nel tentativo (riuscito) di proteggere il proprio matrimonio e la propria famiglia dal tritacarne del potere e della notorietà, fornendo un contributo importante all’azione riformatrice del marito.
Nel libro acquistano un senso pieno i progetti dell’orto alla Casa Bianca, la sua campagna Let’s move a favore della pratica sportiva, della lotta all’obesità infantile e della diffusione di una più ampia educazione alimentare, la sua campagna a favore delle pari opportunità delle ragazze nei confronti dei coetanei maschi.
Il libro è fortemente segnato dall’identità razziale di Michelle: il suo essere nera è stato l’elemento che ha fatto sempre la differenza nella sua vita. Essere donna ed essere nera ha rappresentato la doppia fonte di discriminazione lungo ogni percorso personale e professionale: da qui il sentimento del suo orgoglio per i risultati ottenuti, concepiti non già come effetto di un valore personale affermato contro il mondo, bensì come il risultato corale di una comunità che l’ha aiutata a costruire e mantenere nel tempo la fiducia in se stessa: “La parte importante della mia storia, lo sapevo benissimo, non risiedeva tanto nel valore superficiale dei miei traguardi, quanto in ciò che avevano alla base: le molte, piccole attenzioni che avevo ricevuto nel corso degli anni e le persone che nel corso del tempo avevano contribuito a costruire la mia fiducia in me stessa. Ricordavo ognuno di loro, tutti quelli che mi avevano incitato ad andare avanti facendo del proprio meglio per vaccinarmi contro le offese e le umiliazioni che avrei certamente incontrato nei luoghi verso cui ero diretta, tutti quegli ambienti forgiati da e per persone che non erano né nere né donne” (p. 413-414).
Da qui il suo orgoglio per avercela fatta, la sua speranza perché tutti possano provarci. La sua lotta è contro la stanchezza radicata nei neri, “un cinismo alimentato da migliaia di piccole delusioni subite nel corso del tempo. Capivo benissimo quella stanchezza. L’avevo vista nel mio quartiere, nella mia stessa famiglia. Un’acredine, una perdita di fede. L’avevo scorta in entrambi i miei nonni, frutto di tutti gli obiettivi mancati e dei compromessi che avevano dovuto accettare. L’avevo scorta nella maestra stressata di seconda elementare che, di fatto, aveva rinunciato a insegnare alla Bryn Mawr. L’avevo scorta nella mia vicina che aveva smesso di tagliare il prato e di controllare dove andavano i suoi figli dopo la scuola. Era presente in ogni rifiuto gettato con noncuranza nell’erba del nostro parco e in ogni bicchiere di whisky scolato prima di sera. Era dentro tutto quello che giudicavamo irreparabile, inclusi noi stessi” (p. 142-143).
Il libro nutre le speranze nel cambiamento delle vite individuali attraverso il cambiamento delle comunità: crede nel miglioramento delle persone non l’una contro l’altra (c’è chi vince e c’è chi perde), ma attraverso azioni positive di empowerment a favore di chi si è ritrovato in posizioni di difficoltà. A questi valori si ispira anche la Fondazione Obama, dove Michelle e Barack sono quotidianamente impegnati.