Nella mia personalissima classifica delle serie televisive più amate, non ho dubbi nel collocare al primo posto Chicago Fire: una serie nata nella scuderia di Dick Wolf, uno dei più grandi produttori televisivi americani, a cui sono associati i massimi successi del genere, da Miami Vice a Law & Order. I motivi per apprezzare Chicago Fire sono tantissimi: tra i più condivisibili, quello di avere due spin-off, Chicago Med e Chicago P.D., con cui ha generato una impressionante serie di intrecci e sovrapposizioni, grazie alla quale si ha la sensazione costante di ritrovarsi in un contesto effettivamente integrato: gli eroi della nostra serie, sono infatti vigili del fuoco che accompagnano le vittime proprio nell’ospedale in cui operano i personaggi della serie Chicago Med, così come si rivolgono per i casi di incendi dolosi ai poliziotti del distretto in cui sono ambientate le vicende di Chicago P.D. Addirittura una delle protagoniste della serie, Gabriela Dowson, è sorella di Antonio Dowson, uno dei poliziotti di Chicago P.D., così come il vigile del fuoco Mouch si innamora e si sposa con Trudy Platt, sergente in servizio al distretto di polizia di Chicago P.D.
Inutile dire che le vicende sono ben congegnate, i personaggi convincenti sul fronte della tenuta narrativa, il ritmo incalzante al punto da tenerti incollato al divano fino al termine di ogni puntata: a questi livelli di prodotto televisivo, la qualità complessiva è talmente alta da lasciare poco spazio ai giudizi negativi.
Ma perché questa serie, a differenza di altre, mi ha coinvolto anche dal punto di vista delle emozioni, facendomi desiderare di tornare a casa, dopo una giornata di duro lavoro, proprio per armarmi di un paio di copertine, accoccolarmi sul divano con Ginger e Pallina, e dare il via alla rutilante serie di avventure vissute dai miei amici della Caserma 51? Un desidero che, specie nelle serate più fredde di questo inverno, ha prevalso spesso sulla voglia di uscire, andare a ballare, vedere gente e fare cose.
Questa domanda mi ha guidato a ricercare e individuare le speciali risonanze che evidentemente debbono esserci con il mio vissuto personale, e che possono spiegare una passione così grande nei confronti di Wallace Boden e compagni. Il primo punto di contatto lo trovo insospettabilmente nella mia storia professionale: alcuni anni fa pubblicai sulla rivista “Biblioteche oggi” un breve saggio dal titolo Il bibliotecario pompiere, nel quale affrontavo un tema al quale sono stata sensibile per tutta la mia vita professionale: quello della fatica che si prova nella gestione delle emergenze organizzative, e di come invece si dovrebbe agire sul fronte della programmazione preventiva per evitare che in biblioteca ogni giorno scoppi un incendio da domare. La metafora tra bibliotecario e vigile del fuoco mi serviva appunto, in quel contesto, per sottolineare l’enorme spreco di energia a cui spesso sentivo di andare incontro nel gestire un’emergenza, là dove non ero riuscita – mio malgrado – a definire il corretto percorso da seguire e da far seguire per ottenere il risultato atteso. L’articolo risale al 2004: anni lontanissimi, nei quali il mio impegno professionale interveniva all’interno di un perimetro drasticamente più piccolo rispetto all’attuale. A distanza di quasi vent’anni da allora, il pericolo di incendi nella mia quotidianità lavorativa è costante: la squadra che gestisco è incomparabilmente più numerosa e frastagliata di quella di allora, il rischio di errore è centiplicato, così come i percorsi da seguire per raggiungere un qualunque obiettivo si sono fatti enormemente più pericolosi e complessi, costellati di mine pronte ad esplodere e incendi pronti a deflagrare. Ogni giorno la percezione prevalente è quella della lotta, della fatica, del rischio, delle difficoltà a volte soverchianti.
Ecco che allora Chicago Fire riesce ogni sera a riconciliarmi col mondo, perché sono loro, i ragazzi della Caserma 51, la Squadra 3 di Kelly Severide e il camion 81 di Matthew Casey, a fare tutto il lavoro: io sono lì distesa con la mia copertina e le mie gatte, e loro si fanno in quattro per salvare vite, entrare negli edifici in fiamme, mettere in salvo persone intrappolate, trovare soluzioni impensabili per far fronte a incidenti incredibili, che portano i cittadini di Chicago a un passo dalla morte. Ecco, in quel momento, i miei incendi sono placati, il mio mondo pieno di trappole è a riposo, e io mi godo la mia personalissima tregua serale, guardando altri me alle prese con le tragedie della vita.
E poi, ecco un secondo motivo non troppo segreto del mio amore per loro, i miei eroi sono dipendenti comunali come me. Hanno anche loro, come noi, a che fare con le ristrettezze di budget, con le difficoltà a disporre di equipaggiamenti più performanti; fanno i conti, come noi, con uno stipendio che non permette loro di fare grandi cose (e per questo, a differenza di noi, hanno facoltà di fare un secondo lavoro ufficiale); sopra le loro teste si muovono (come nel nostro caso) le decisioni della politica, che possono seguire logiche non sempre in linea con le esigenze dei cittadini. Come noi, si sentono al servizio della comunità, e cercano alleanze come e quando possono: ospitano in caserma un matrimonio tra le vittime di un incidente, mettono cartelli per richiedere alla gente se qualcuno ha un televisore da regalare loro, per metterlo nella sala comune, Come noi, trovano il senso del loro lavoro, nel porsi al servizio della gente, e per questo – come a volte capita anche a noi – sentono di vivere una esperienza professionale di grande valore.
Ma ciò che amo più di ogni altra cosa, nelle vicende raccontate a Chicago Fire, è la straordinaria solidarietà che lega tutti i membri della Caserma 51: quegli uomini e quelle donne si vogliono bene davvero, si spalleggiano, si sostengono, si riconoscono come parte di una famiglia allargata. Prima di entrare in servizio, li vedi guardare l’edificio della caserma con amore, con un attaccamento che li motiva ogni giorno a dare inizio al turno di lavoro: e non mi vergogno di dire che questo è anche il mio sentimento, quando ogni mattina lascio la macchina al Parcheggio Pertini, e costeggio a piedi la Cattedrale per poi alzare lo sguardo verso la San Giorgio, con quella gratitudine che mi permetterà di timbrare il cartellino di lì a un minuto, e iniziare un turno di lavoro che è quasi sempre di 12 ore, esattamente come accade ai miei pompieri.
Ognuno dei miei eroi ha la propria vita: c’è chi ha messo al mondo una squadra di figli, chi fa di tutto per averne ma non ci riesce, chi non si lascia scappare nessuna bella donna dei paraggi ma riconosce il valore dell’amicizia, chi dedica tutto il tempo libero a mandare avanti un bar riconosciuto come il rifugio di tutte le persone per bene di Chicago. Ma ognuno di questi personaggi trova la prima fonte della propria identità nel lavoro, come un po’ capita a me e a chi – come me – trascorre in ufficio 12 ore al giorno.
E che dire dell’amore per la propria città? Chicago piena di problemi, una città che emerge con straordinaria potenza dallo sceneggiato, come fosse il luogo più speciale del mondo. Un po’ come Pistoia, che per me è il luogo più speciale del mondo, perché lì ci sono i miei pompieri, la mia caserma, la mia famiglia, la mia comunità.
Ecco perché io amo Chicago Fire: e non vedo l’ora che su Prime compaiano anche le ultime serie. La copertina e le gatte sono pronte, e io pure.