Straordinariamente bello: non saprei come altro definire Hugo Cabret, il film che ci siamo visti stasera, e che ci ha regalato un viaggio straordinario tra le scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Martin Scorsese ha firmato una delle sue opere più affascinanti, che lo lanciano avanti, nel mondo degli effetti speciali 3D (i nostri occhialetti, però, non hanno funzionato, forse per colpa nostra), permettendogli contemporaneamente di voltarsi indietro, verso l'epopea degli inizi della storia del cinema.
Siamo nella stazione di Montparnasse negli anni Venti-Trenta: brulicante di viaggiatori, piena di sbuffi di vapore che fanno pensare più alla Londra della Rivoluzione Industriale che alla Parigi della Belle Epoque. Assolutamente dickensiano il protagonista della storia, Hugo Cabret, un ragazzino curioso e intelligente, che alla morte del padre, custode in un museo ma ancor più inventore di automi, va a vivere con lo zio ubriacone nei meandri della stazione e qui diventa il "custode" degli orologi.
Il mondo fantastico del "dietro le quinte" dei grandi orologi di Montparnasse si apre allo spettatore in tutto il suo miracolo: un incredibile dedalo di strade, stradine e scale attraversate da grandi sbuffi di vapore. Ma il miracolo sta tutto nell'automa che il ragazzino ha ereditato dal padre, e ora vuole mettere in funzione: si tratta di un automa in grado di riprodurre un fotogramma del film Viaggio sulla luna di Georges Meliès, considerato il secondo padre del cinema, dopo i fratelli Lumière, inventore degli effetti speciali e del cinema di fantascienza.
Ed in effetti è proprio Georges Meliès il proprietario del chiosco di giocattoli dentro la stazione dove Hugo si reca sempre di nascosto a rubare gli attrezzi che gli servono per riparare l'automa.
Il film è un tributo di Scorsese al cinema delle origini, al desiderio di meraviglioso e al potere dell'immaginazione. Ma è anche una storia di amore tra padre e figlio.
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