Quando si parla degli effetti della crisi economica sulle famiglie e sulle imprese, il pensiero corre subito agli impiegati che hanno perso il posto di lavoro, agli operai che si sono ritrovati a casa perché l'azienda è stata de-localizzata dall'altra parte del mondo, o ai piccoli commercianti che hanno dovuto chiudere la bottega attorno alla quale si è sviluppata da decenni la storia della loro famiglia.
La crisi ha colpito anche categorie sociali meno simpatiche, come quella dei manager: coloro che ai tempi belli hanno guadagnato molto, ed hanno raggiunto uno status sociale elevato, permettendosi una "bella vita" (macchine potenti, belle case, vestiti firmati), magari in cambio di una totale dedizione all'azienda. Il tornado della crisi non ha risparmiato nemmeno loro, ma al contrario li ha costretti a misurarsi con un inatteso ridimensionamento del tenore di vita, con l'inattività, con una percezione del sé tutta da rideclinare.
Qualcuno non è stato capace di accettare fino in fondo la realtà, ma ha preferito nascondere alla famiglia il proprio status di disoccupato, uscendo come sempre ogni mattina, per passare la giornata a casa della madre, complice della farsa, e rientrare alla sera con tanto di cartella di documenti da esaminare: un po' come accade al protagonista del film A tempo pieno, di Laurent Cantet.
C'è invece chi ha avuto la forza di trasformare la perdita del lavoro in una opportunità di cambiamento, partendo prima di tutto dal rinegoziare con se stesso alcune credenze, che fino ad allora avevano alimentato il senso di sicurezza personale e che nel nuovo contesto di non-lavoro rischiavano di diventare ostacolo nel percorso da compiere.
Quel che emerge chiaramente dalle storie dei manager rimasti "out of office" è che la perdita del lavoro è una grave minaccia, che non si trasforma in opportunità con un semplice schiocco di dita, magari dopo aver letto un libretto di auto-motivazione: questa trasformazione richiede al contrario l'impiego di una grande energia di trasformazione.
Grazie ad uno stile esplicativo "ottimistico" – come insegnano le storie raccontate nel libro – è stato possibile per tanti manager rimasti senza lavoro, elaborare il lutto e rimettersi in pista, facendo della perdita del lavoro una occasione di apprendimento e di ripensamento delle proprie scelte, permettendo al proprio vissuto di avere un effetto generativo.
Grazie agli approfondimenti metodologici che fanno seguito alle testimonianze personali, il libro offre interessanti spunti di riflessione sui cambiamenti in atto nelle organizzazioni: l'incertezza è ormai un elemento "stabile" all'interno delle aziende, ed il senso di appartenenza si va spostando dal brand aziendale al proprio brand personale e professionale. Il successo si lega pertanto alla collezione di segmenti lavorativi non omogenei, legati tra loro dal senso del commitment personale.
Tra gli strumenti da utilizzare per questa ricostruzione di sé come lavoratore, spiccano tra tutti il networking e la "cassetta degli attrezzi" con le competenze acquisite: una cassetta magari da riordinare, mettendo in evidenza proprio quelle competenze ed esperienze che risuonano di più col vissuto individuale e perciò danno una immediata percezione di valore distintivo.
Rialzarsi si può. Ripartire si può, anche quando si è stati improvvisamente fermati e si è stati costretti a permutare la "macchina lunga" con una utilitaria: l'importante – ci dicono gli psicologi del lavoro curatori del libro – è imparare a cambiare, per restare se stessi, moltiplicando e rinnovando i propri talenti.