Si alza un unitario peana a favore del nuovo film su Steve Jobs, uscito questo fine settimana in Italia, ma io non riesco a stare nel coro. Ben costruito, ben interpretato, non c’è che dire. Due ore che scorrono in un lampo. Ma mi aspettavo qualcosa di più “epico”: una di quelle pellicole che ti prendono le budella e te le rigirano dentro la pancia, a suon di emozioni. Invece viene fuori una figura di dimensione “umana”, consapevole dei propri limiti, alla ricerca di affetti.
Ha scritto Marianna Cappi su MyMovies: “Birbante intelligenza, anziché annoiarci con il racconto a tutti già noto di un successo professionale accompagnato da una serie di insuccessi sul fronte umano e personale, Sorkin racconta appunto il contrario: un successo umano, ottenuto faticosamente, attraversando anni di insuccessi professionali, aspettative frustrate, persino umiliazioni pubbliche. Certo, Jobs è testardo, arrogante, sfruttatore, “incompatibile” con il resto del mondo, e non c’è bisogno di rettificare: consapevole delle sue debolezze, saldo nei suoi difetti, solo così il ritratto di Steve Jobs è quello di un essere umano, imperfetto come ogni altro, creatore, però, di prodotti imperituri, senza peccato originale. In questa consapevolezza dei propri limiti morali e comportamentali, che Sorkin affida al protagonista del racconto, c’è quasi un’idea di sacrificio, per cui il leader rinuncia all’umana comprensione e al gradimento del popolo per lasciare un segno nella storia, a beneficio dei posteri. Cresceranno e capiranno, come Lisa, che assurge così a emblema dello spettatore critico, destinato a cedere al fascino dell’intelligenza al lavoro.”
Il film ha un nastro lungo un chilometro di nomination a tutti i premi possibili e immaginabili. Sarà che sono stanca e raffreddata, ma a me tutto questo effetto non l’ha fatto.