Oggi ho visto un film celebratissimo, che però non è riuscito a far breccia nel mio cuore e nelle mie emozioni: “Il condominio dei cuori infranti” di Samuel Benchetrit (Asphalte, in originale).. Al centro della vicenda, un condominio degradato di una banlieue che forse è parigina, ma forse no (fuori dal mondo come risulta): un palazzone tristissimo, che si merita inquadrature in un cielo plumbeo e privo di speranza. Un cielo che piacerebbe sicuramente a Ciprì e Maresco per fare da sfondo ai loro terribili siparietti di degrado, miseria e bassezza umana conditi in una piccante salsa grottesca.
Ma qui siamo in Francia, e c’è la possibilità di trattare la miseria del mondo in modo lieve, e addirittura farne la location della speranza e del riscatto dal disastro morale. Perché il bambino che sembra lamentarsi durante tutto il film altro non è che il cigolio di uno sportello di un cassone abbandonato; perché dalle cadute ci si può rialzare, come almeno suggeriscono le tre storie parallele che si snodano ai vari piani del condominio: cade dalla cyclette, dopo avere ecceduto con la sessione di allenamento, un uomo che non vuole pagare la quota di spesa per la riparazione dell’ascensore condominiale, e che – costretto su una sedia a rotelle – si ritrova ad usare l’ascensore di nascosto da tutti gli altri condomini, per poter andare ad incontrare, nottetempo, la donna di cui s’innamora; è caduta dal piedistallo della notorietà un’attrice sulla via del tramonto, che nel condominio trova aiuto in un ragazzino solitario; cade dal cielo, sul tetto del condominio, una navicella spaziale americana con a bordo un astronauta che trova rifugio nell’appartamento di una donna marocchina, con tanto di figlio in galera.
Surreale ma mai grottesco, delicato e “svampito”: pur essendo tutt’altro che esperta di cinema, mi sento di dire che un film così non sarebbe mai stato realizzato in Italia. Altre le poetiche, diverso il rapporto tra miseria e riscatto. E dunque leggo qui dalla rete
“Ispirato a due racconti di “Chroniques de l’asphalte”, il quinto film di Samuel Benchetrit è una commedia surreale e sociale che descrive la realtà nella sua desolazione e la riscatta attraverso la mobilitazione di un’umanità inattesa. Scrittore e regista, Benchetrit pesca nella sua autobiografia e mette in schermo le banlieue della sua infanzia, osservandone l’impassibilità e facendone esplodere il contenuto emotivo. Con uno stile rigoroso, inquadrature fisse e pochi movimenti di macchina, Il condominio dei cuori infranti unisce la pulizia delle immagini alla semplicità della progressione narrativa, spogliata di qualsiasi sentimentalismo. Seriamente ironica, la poetica dell’autore impiega il linguaggio della sconfitta per parlare di speranza, della caduta per dire della risalita. In una cité in disarmo sotto un cielo coperto e incolore, che amplifica il suono livido di uno sportello scambiato per pianto, grido, supplica, l’autore innamora anime belle che nell’incontro con l’altro ritrovano il senso e la volontà. Le loro traiettorie chiuse subiranno importanti variazioni aprendole ad altri ambienti e mettendole in contatto con persone diverse ma con la stessa voglia di lasciarsi alle spalle memorie dolorose. Trasognato e sotterraneamente politico, Il condominio dei cuori infranti combina realismo sociale e scrittura tragicomica, affrontando poeticamente l’emarginazione. A creare la sospensione e la fluidità sognante del racconto contribuiscono il luogo della vicenda, la banlieue tenuta fuori campo e poi svelata nel piano finale che scioglierà il terrore sociale e l’aneddotica sul gemito prodotto dal vento, e i vestiti, i personaggi sono abbigliati sempre allo stesso modo, in fogge che li qualificano e identificano. Scoglio ostinato in un mare di uniformità, il film di Benchetrit afferma la sua natura altra, intima e densa svolgendo una serie di ritratti maschili e femminili che condividono un condominio e un’assenza, il sentimento forte di una mancanza: il figlio per madame Harmida, la madre per Charly, la homeland per John, la compagna per Sternkowtiz, un ruolo (nella vita) per Jeanne. I personaggi di Benchetrit incarnano la solitudine contemporanea sfuggendo tuttavia lo stereotipo grazie alla frontalità della messa in scena e a battute secche che li inchiodano al proprio ruolo o lo definiscono con humour. Tra i piani, lungo i corridoi, dentro gli appartamenti, nell’ascensore, si muove un’umanità spicciola che Benchetrit ama di sconfinato amore. La petites gens che diluisce la malinconia e gli affanni nel fare, nel parlare, nel cucinare, nel regalare un gesto che ha come premio il gusto irripetibile di un sorriso o di una lacrima. Se ancora una volta Isabelle Huppert e Gustave Kervern hanno ‘peso specifico’, è Michael Pitt a stabilire la differenza che lo distingue nei lunghi silenzi o nelle battute in inglese, lingua straniera che diventa risorsa comica non verbale. Dandy caduto sulla terra con gli occhi acquosi davanti allo sguardo materno di Tassadit Mandi, il suo astronauta è l’alieno precipitato sul lato oscuro del pianeta, sul lato grigio di Parigi che diventa ‘piattaforma’ da cui ripartire.
Parabola umanista, narrata con irreale leggerezza, Il condominio dei cuori infranti trasforma in poesia la banalità del quotidiano, sospendendo i suoi protagonisti tra prigione del reale e sogno di fuga. Struggenti come le polaroid di Sternkowtiz, gli antieroi di Benchetrit escono dall’anonimato attraverso l’amore perché è lo slancio verso l’altro a dare senso alla vita”.
La critica di Goffredo Fofi al film: