Domani compirò trent’anni. Che avete capito? Trent’anni di lavoro! Era infatti il 15 marzo del 1988 quando per la prima volta varcai la soglia della Biblioteca comunale di Impruneta, allora in via Paolieri, per iniziare il mio percorso professionale giunto ai suoi tre quarti di storia. Da allora le strisciate di badge non si sono più contate (precedute, per anni, dalle timbrature meccaniche sulle cartoline di cartoncino, sulle quali si dovevano fare i conteggi a mano!), e ancora ce ne saranno. Ma il momento è solenne e merita la giusta celebrazione, se non altro in termini di lezioni imparate. Ecco dunque il “succo” di 30 anni di lavoro in cinque punti (ma potrebbero essere molti di più…):
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Cambiare ente ogni tanto fa bene a sé e agli altri: io ho cambiato quattro comuni (Impruneta, Castelfiorentino, Empoli e Pistoia) e solo così ho potuto fare quel poco di carriera che mi è riuscito fare. La progressione verticale nel medesimo ente è un fenomeno pressoché sconosciuto. Per andare avanti bisogna anche spostarsi di lato, un po’ come nella mossa del cavallo. E poi cambiare aria fa bene: si scopre subito che non esiste un unico modo di vedere e fare le cose, si rinnovano le relazioni e le abitudini, si conosce gente diversa. I momenti di conclusione di un lavoro durato magari anni, nei quali chiudi tutte le pratiche, fai l’elenco di ciò che è rimasto sospeso, sistemi tutto ciò che hai gestito, addirittura rimetti a posto tutte le cartelline, pulisci i cassetti della scrivania, consegni la chiavetta con i file riordinati hanno un che di emozionante. Ti misuri con i tuoi risultati, ripercorri il tuo percorso e gli dai un senso speciale da condividere con chi prenderà il tuo posto. Così come è emozionante cominciare una nuova avventura: non conosci ancora le persone, provi nostalgia per il posto che hai appena lasciato, hai un po’ di paura, ti domandi se hai fatto proprio bene a non rimanere lì dove ormai tutto andava liscio e lavoravi con la mano sinistra. Poi cominci a mettere le tue cose nei cassetti della scrivania, entri nel nuovo meccanismo, smetti di scrivere in automatico il nome del tuo vecchio comune e scrivi quello nuovo. E’ un po’ come rinascere ogni volta. O provare l’emozione di un quaderno nuovo tutto da scrivere.
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L’importante è divertirsi: dal 15 marzo 1988 a oggi sono stati davvero pochi i giorni in cui non mi sono divertita. Divertirsi non vuol dire giocare a solitario, chiacchierare con i colleghi, dedicarsi alle attività personali: vuol dire invece sentire una profonda sintonia tra ciò che si fa e ciò che si è, riconoscere il senso autentico del valore del proprio lavoro, avere la percezione quasi “fisica” di cambiare la realtà nella quale si sta operando. Quando ci si diverte in questo senso, non si sente la fatica neppure dopo 14 ore filate di lavoro. La fatica non c’è proprio: entra in funzione la pila atomica dell’adesione a ciò che si fa, e si dà corpo all’espressione “essere una forza della natura”. Tutta un’altra cosa che essere al lavoro: la biblioteca, i libri e la lettura ti entrano nelle orecchie e nel cuore, te li porti in vacanza, a letto, nel bagno. Non stacchi mai.
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Si è sempre direttori generali, almeno di se stessi: a me è capitato di esercitare sempre funzioni direttive. Non ho mai provato l’esperienza di rendere conto ad un direttore sopra di me. Certo ho sempre avuto un superiore gerarchico, con cui ho cercato di instaurare un rapporto di fiducia. Ma ho sempre fatto mio il mantra: “Se poni un problema senza la soluzione, tu sei parte del problema”. Non ho mai pensato che qualcuno dovesse affrontare un problema al mio posto. Purtroppo nella mia vita mi è capitato di incontrare colleghi o collaboratori che pensavano: “Io ti pongo il problema, risolvilo tu che sei il capo, a me non spetta risolverlo perché guadagno meno di te”: sono i colleghi che ho apprezzato di meno in assoluto. Non conta quello che si guadagna: conta stare nella situazione ed essere responsabili. Responsabilità è l’abilità di dare risposte ai problemi.
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E’ molto importante sentirsi in debito col proprio lavoro, anche quando le cose non stanno proprio così. In questi trent’anni ho sempre pensato di avere più ricevuto che dato nel mio lavoro. Anche quando (come nel 2017!) ho accumulato 800 ore di straordinario non retribuibile e non recuperabile (ah, le posizioni organizzative!), non ho mai pensato neppure per un momento di avere fatto più di quanto dovevo. In tutta sincerità ho creduto che le opportunità a cui sono stata esposta facessero da ricompensa generosa dell’impegno profuso. Chi crede di “avere fatto anche troppo” non mi è mai piaciuto. Quando si è dipendenti pubblici e si lavora per la propria comunità, non c’è mai un troppo.
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Bisogna essere sereni nel riconoscere che, dopo essere stati una risorsa, si comincia ad essere un ostacolo per la propria struttura. Un conto è avere 27 anni, un altro è averne 57. Trent’anni di esperienza ti portano ad avere uno sguardo più lungo, a sentire alcune cose direttamente nella pancia, a comporre quadri d’insieme in un secondo. Ma ti portano anche ad essere fuori da molti giochi: alcune cose non ti riescono più, altre non le capisci, altre ancora le ignori del tutto. Per questo è bene dare spazio ai più giovani, “usandoli” come una tua protesi progettuale. Dove non arrivi più tu, arrivano loro. E tu metti a disposizione quell’occhio lungo, quella pancia e quella capacità di capire che loro non hanno ancora sviluppato. Solo insieme a loro, senza paura di essere superato (ma magari succederà anche questo), potrai creare una squadra che funziona. E se – una volta avuto lo spazio – i giovani si mettono a fare i ganzini Iosotutto, bisogna anche avere il cuore di richiamarli all’ordine: fare i ganzini non ha mai fatto bene a nessuno. Si è ganzi solo tutti insieme.