Italianissima di nome, ma americana per nascita e storia personale, Lisa Genova è una esperta di neuroscienze conosciuta in tutto il mondo per i suoi romanzi incentrati sulla dolorosa distanza tra normalità e patologia, tra salute e malattia. Il primo, e più famoso di tutti, è Perdersi, diventato un film di successo, dal titolo Still Alice, grazie alla magistrale interpretazione di Julianne Moore.
Nel suo secondo romanzo tradotto in italiano, Ancora io, l’autrice pone al centro della vicenda una figura di donna molto simile a quella di "Perdersi": una donna all’apice dell’impegno personale e professionale, con un marito, tre figli piccoli e un lavoro che la impegna fino allo sfinimento (nel primo caso, una carriera in ambito accademico e scientifico, nel secondo un posto da mega-dirigente in una società di consulenza). Entrambe le donne sono chiamate a dare ogni momento il meglio di sé, scapicollandosi nel tentativo di inverare il sogno di essere tutto per tutti, e tutto insieme, senza lasciare niente al caso e senza rinunciare né alle riunioni ad orari impossibili né alle fiabe della buonanotte da leggere ai bambini. Ma mentre Alice, protagonista di "Perdersi", si misura con l’Alzheimer precoce e la perdita progressiva della propria autonomia, Sarah, protagonista di "Ancora io", è chiamata a fare i conti con gli effetti devastanti del proprio sentimento di onnipotenza, che la porta a inviare messaggini sul cellulare mentre è alla guida della propria auto: perché le cose da organizzare sono sempre tante e il tempo manca per definizione; perché il multitasking è l’unico modo per tenere tutto sotto controllo, e fare una cosa alla volta sarebbe come abdicare alla propria sconfitta. Perché quando si è convinte di essere perfette, si crede di poter sfidare la sorte e vincere sempre. Perché darsi da fare è l’unica ricetta possibile per far fronte ai problemi della vita, compreso quello – ammesso solo con riserva – che il figlio maggiore soffra davvero di un problema grave di apprendimento, e non sia per niente l’alunno perfetto su cui ha riposto un bel po’ di aspettative.
Ma cellulare e guida in auto non vanno d’accordo, ed è per questo che Sarah si ritrova cappottata con l’auto fuori strada: l’auto distrutta, la parte sinistra del suo corpo che si rifiuta di rispondere ai propri comandi. Non c’è più speranza di tornare al lavoro, riprendere il filo delle infinite riunioni destinate a durare fino a notte fonda. Non c’è più modo di comandare tutto e tutti. Al contrario, anche le operazioni semplici, come leggere una pagina di un libro, vestirsi o nutrirsi, diventano per lei sfide dolorosissime, che la impegnano in uno sfibrante lavoro di recupero destinato a dare risultati molto lenti. La sua patologia, la Negligenza Spaziale Unilaterale, le impedisce di riconoscere le parole scritte nella parte sinistra della pagina, di comandare il braccio sinistro, di scoprire l’esistenza delle posate poste alla sinistra del piatto: le operazioni che gli altri compiono senza neppure pensarci per Sarah diventano avventure faticose, a volte al di sopra delle sue capacità. Il multitasking esce di scena, e con esso la felice alleanza tra successo e identità: Sarah è ancora Sarah, ma le sue performance hanno uno statuto profondamente diverso.
Il libro ci restituisce lo stridore tra un prima e un dopo che trasforma la vita della protagonista, permettendole di ricomporre i rapporti con la madre (uscita dai binari dell’amore materno dopo la perdita del figlio maggiore, fratello di Sarah), rinsaldare la relazione con il marito e i figli (compreso il figlio con problemi di apprendimento ora inferiori ai suoi), recuperare una progettualità diversa, in grado di abitare i luoghi della sconfitta, attraversare la perdita, sostare nell’imperfezione. Un libro sull’accoglimento della diversità che non lascia spazio ai sentimentalismi mielosi e buonisti, ma che reinterpreta in chiave di resilienza gli effetti di una “disgrazia” in grado di trasformarsi in una vera e propria ripartenza.