Oggi pomeriggio ho avuto il piacere e l'onore di partecipare alla manifestazione 3GA, Tre giornate di Architettura organizzata dall'Ordine degli architetti della provincia di Pistoia. Questa sesta edizione dell'evento è stata dedicata al rapporto tra architettura e cultura, com'era immaginabile data la particolarità di quest'anno, che vede Pistoia capitale italiana della cultura.
La mia partecipazione è stata inserita in una sessione dei lavori dedicata ai temi dei contenitori culturali e al ruolo che l'architettura può svolgere nella diffusione e promozione della cultura nel nostro Paese. Il mio intervento, pur rimanendo strettamente legato all'esperienza della Biblioteca San Giorgio, ha però voluto assumere una connotazione più generale, prendendo le mosse dalle tante possibili declinazioni della relazione tra architettti e bibliotecari: una relazione che mi sono sentita di definire "strategica", ma che spesso non viene gestita al meglio, nelle pur preziose occasioni in cui una Amministrazione Pubblica decide di investire molto denaro, se non nella costruzione di un contenitore culturale ex novo, almeno nel riuso di un contenitore che ha perduto la sua funzione originaria, nel contesto più generale di progetti di rigenerazione urbana di parti di città.
Alla luce della mia trentennale esperienza di bibliotecaria, mi è infatti capitato di veder declinato il rapporto tra questi due professionisti in modi volta per volta diversi. Ma il modo che ho rilevato più frequentemente nelle realtà che ho conosciuto è stato quello della estraneità anche "cronologica": l'architetto di frequente viene chiamato ad offrire soluzioni di rigenerazione di un edificio, prima ancora che il committente abbia deciso quali siano le sue finalità: penso al caso del Convento degli Agostiniani di Empoli, splendidamente restaurato negli anni Novanta e poi lasciato vuoto ancora per un po' di tempo, prima che venisse destinato a sede di una importante mostra sui documenti d'archivio e poi diventasse oggetto di un ripensamento globale fino ad essere destinato ad accogliere parte dei servizi bibliotecari.
In casi del genere architetto e bibliotecario non si sono mai neppure incrociati: e quindi non hanno potuto confrontarsi sulla possibile traduzione architettonica, impiantistica e funzionale delle esigenze nascenti dall'organizzazione dei servizi. In altri casi, forse ancora più tristi di questo, l'architetto si è lasciato guidare da una idea di biblioteca sostanzialmente "vecchia", come luogo di studio e ricerca da arredare in modalità basic: tavoli e sedie, scaffali, banchi di servizio per gli operatori. Un'idea, forse, presa in comodato dalla propria personale esperienza di studente universitario. Non è raro infine che sia proprio il bibliotecario a rispecchiare una idea così superata di biblioteca, rimanendo tragicamente al bordo di tutte quelle sperimentazioni coraggiose ma vincenti che permettono alla biblioteca pubblica di innovare, vincere e convincere.
Nel mio lungo intervento ho provato ad evidenziare le parole-chiave che l'architetto non deve mai perdere di vista nel momento in cui progetta una biblioteca e si confronta con chi dovrà gestirla nella quotidianità:
1) FLESSIBILITA': gli spazi e gli arredi debbono essere al servizio del cambiamento, e non divertarne ostacolo. "Library is a growing organism", diceva nel 1932 Ranganathan: la biblioteca cresce e si evolve, si trasforma nel tempo per ospitare nuovi servizi o per offrire opportunità diverse rispetto a quelle di cui si è sentito bisogno in passato. In tal senso, è molto importante che gli arredi siano leggeri, facilmente spostabili (meglio ancora su ruote, da muovere con un dito), in modo tale che una sala di lettura si possa trasformare velocemente in una sala conferenze o viceversa
2) COMPARTIMENTABILITA': la biblioteca non può essere sempre aperta "tutta". In certi momenti sarà utile aprire solo la sala conferenze e il bar, in altri solo la sala corsi. Da qui la necessità di progettare spazi facilmente compartimentabili, in modo tale che ogni spazio possa vivere una vita anche autonoma. Non sempre ci sono soldi e personale sufficienti per aprire tutto. E quando questo succede, proprio come nel caso della San Giorgio, se non si può aprire tutto, allora tutto rimane chiuso. Ed è un vero peccato.
3) L'ATTENZIONE ALLA QUOTIDIANITA': spesso gli architetti progettano vetrate bellissime, con l'intento di far comunicare interno ed esterno, e con l'effetto di trovare soluzioni di grande pregio estetico Ma come si fa a pulire vetrate del genere? Quando mai una biblioteca potrà mettere in campo risorse tali da poter disporre di una ditta attrezzata con scale aeree e altri strumenti costosi per mantenere pulita la vetrata bellissima? Quanto tempo impiega una vetrata bellissima a diventare una vetrata orrenda, se non c'è modo di pulirla frequentemente? Mi viene da pensare che il pool di architetti dovrebbe inglobare al proprio interno anche un addetto alle pulizie, in grado di portare il proprio importantissimo punto di vista per la sostenibilità sul lungo termine di certe scelte suggerite dall'attenzione esclusiva o prioritaria all'estetica e agli "effetti speciali". Come diceva Leo Longanesi nel suo fulminante taccuino "La sua signora", l'Italia alla manutenzione preferisce l'inaugurazione. E questo vale moltissimo per le biblioteche, purtroppo.
Una volta illustrati questi "principi", ho provato a riflettere sulla dimensione sociale della biblioteca pubblica, che la San Giorgio è stata una delle prime biblioteche a interpretare: un cambio di paradigma che nel nostro caso è avvenuto senza l'aiuto di una modellistica già sviluppata, visto che siamo stati noi a contribuire a crearla.