Ho conosciuto personalmente un influencer: un ragazzo di poco più di vent'anni, molto carino e simpatico, che per il momento arrotonda lo stipendio che riceve lavorando nello studio professionale dei genitori, ricevendo somme di denaro, capi di abbigliamento e complementi diversi in cambio di una forma di pubblicità non tradizionale: quella legata alla promozione di marchi e prodotti tramite il passaparola generato tramite i social network. Sostanzialmente, da quanto ho capito, lui indossa i capi che gli vengono regalati, si fa fotografare da un professionista suo amico, pubblica le foto su Istagram e su altri social network, per poi aggiungere informazioni e commenti (ovviamente positivi) su ciò che indossa, con l'effetto di indurre all'acquisto i suoi seguaci o followers. Non fa esattamente il modello: i modelli non commentano i capi che indossano, non legano il proprio nome a quel marchio. A parte casi molto particolari (soprattutto sul fronte temminile) chi sfila fa "il manico di scopa", nel senso che indossa il capo per valorizzarlo, ma non porta con sé la propria personalità o quello che ritiene che sia la propria personalità, più o meno artefatta o autentica.
Fatto sta che all'influencer marketing ha dedicato una voce persino Wikipedia: segno che dell'argomento si comincia davvero a parlare. E ovviamente sono molto curiosa di un fenomeno del genere, che a me ricorda la serissima teoria dei connettori fatta conoscere da un sociologo del calibro di Malcom Gladwell nel suo intramontabile saggio Il punto critico: i connettori – ed eravamo molto prima di internet, beninteso – sono quelle persone speciali che vivono in più reti di relazione, e che proprio per questo sono in grado di creare contatti diretti tra persone che non si conoscono e che possono entrare in relazione tra loro grazie, appunto, all'influenza del "connettore". Il connettore è colui che cambia auto, e da lì a poco i suoi amici fanno lo stesso; trascina verso comportamenti a cui conferisce valore, induce il successo di una moda o l'affermazione di una tendenza.
L'influencer è qualcosa di simile, ma forse in un ambito più superficiale e più estemporaneo. Di questo fenomeno ne dice davvero peste e corna Domenico Naso dalle pagine on line de Il fatto quotidiano, in un contributo esilarante, nel quale gli influencer vengono giudicati cialtroni di dimensioni cosmiche, ragazzi ignoranti e spocchiosi che si credono di essere qualcuno e invece vivono a scrocco, finché possono, pensando di essersi costruiti una carriera, mentre invece saranno spazzati via dal primo vento che ripulirà l'aria intorno:
"È una bolla, quella degli influencer, che speriamo scoppi presto. Probabilmente, scoppiando diffonderà nell’aere tanta glitterata vacuità e così tanta boria da far sembrare persino Sgarbi una persona umile. Urge bagno di umiltà per influencer e wannabe, uno schiaffone virtuale tra capo e collo che faccia loro capire che no, non ce l’hanno un mestiere. Che era solo una grande illusione, una devianza forse inevitabile dell’epoca del web. Che quello che resterà loro in mano sarà solo un paio di sneakers alla moda e qualche biglietto gratis per andare al cinema."
Di diverso avviso Stefania Medetti, che su Panorama scrive un bell'articolo sui social influencer sottolineando la novità rappresentata da questa modalità di promozione di beni e prodotti tramite la rete. Quello che è certo che i modi di fare pubblicità si stanno adeguando ai tempi che cambiano: un tempo si spendevano 50.000 euro per un paginone sul Corriere della Sera per pubblicizzare una nuova giacca. Ora probabilmente si pagano con la stessa cifra 1000 persone disponibili a dire sui social che quella giacca è veramente bella e sta d'incanto. La glitterata vacuità è rimasta la stessa, forse si è distribuita di più ed è diventata alla portata di tutti.
Mi piacerà stare dietro a questo fenomeno: tenerlo sott'occhio e provare a capirne le traiettorie. Annusare l'aria è un compito fondamentale per chi vuole innovare.