Oggi sono cominciati i colloqui selettivi per la copertura di 4 posti di servizio civile presso la San Giorgio: 30 ragazzi, ciascuno con la propria storia e le proprie speranze. Domani saranno 60 (30 al mattino, 30 al pomeriggio), e venerdì completeremo il lavoro con gli ultimi 30. Totale 120 persone "lanciate" in attesa di una risposta positiva, che invece arriverà solo per 4 di loro.
I colloqui mi offrono tante occasioni per andare oltre dai casi esaminati oggi, e fare qualche considerazione generale, valida per gran parte dei ragazzi tra i 20 e i 30 anni; c'è da riflettere non solo sulla preparazione "tecnica" dei ragazzi (quella che si acquisisce attraverso un percorso scolastico formale). Mi viene da pensare soprattutto a quelle competenze più delicate che attengono al sapersi rapportare nel modo più appropriato nel contesto di riferimento, al saper distinguere con chiarezza il valore della propria esperienza personale nella creazione di competenze spendibili sul mercato del lavoro. Vivere una specifica esperienza personale è davvero sufficiente per affermare di disporre di competenze spendibili in un contesto professionale per gestire iniziative e interventi lato sensu riconducibili a quella esperienza? Per essere concreti, avere la passione di cucinare a casa è condizione necessaria e sufficiente per diventare un bravo cuoco? Si tratta di un comprensibile tentativo di "mascherare" l'assenza di esperienza con un riferimento biografico effettivo, oppure – più tragicamente – si tratta di una presunzione di equivalenza?
Al di là del nostro piccolo caso, quanti dei ragazzi di questa generazione, nell'attuale contesto del mercato del lavoro, risulteranno effettivamente occupabili? Si tratta di domande complesse, alle quali è difficile trovare risposte consolanti. Se da un lato una "concentrazione" delle risorse di vita sulla formazione formale può creare situazioni in cui carriere universitarie rapide e brillanti trovino riscontro in uno zero assoluto di esperienze di altro tipo, dall'altro lato qual è la valutazione da assegnare a percorsi formativi di livello medio-basso che "galleggiano" nel nulla?
Quanti di questi ragazzi hanno una reale consapevolezza "strategica" dell'importanza degli anni che stanno vivendo per investire su se stessi? Quanto sono realmente orientati e aiutati dalle loro famiglie? Quanto presto si dovrebbe cominciare ad insegnare il self-branding?
L'esperienza di questi giorni sarà sicuramente molto "utile" per noi adulti, chiamati ad operare una dolorissima selezione; sentire di avere tra le mani il "destino" delle persone, sia pure per solo un anno di vita, comporta una applicazione di responsabilità estremamente alta.