Il giorno e mezzo trascorso al Salone del Libro di Torino ha rappresentato per me una esperienza professionalmente positiva, avendomi permesso di entrare in relazione con tante persone che operano con passione e competenza all'interno della filiera del libro. Ma stasera voglio soffermarmi su alcuni aspetti eccentrici rispetto alla dimensione professionale, che attengono alla mia personalissima percezione della città che mi ospita.
L'Hotel AC Marriott in cui ho alloggiato, recita una efficientissima colonnina informativa, era un tempo sede di un pastificio (vedi): ha conservato intatto il suo carattere di edificio industriale nello stile art nouveau, pur avendo modificato profondamente la sua destinazione d'uso. A piedi mi sono incamminata da lì lungo via Nizza, per superare l'austero edificio della Carpano, oggi sede di Eataly, per poi avvicinarmi alle grandi costruzioni del Lingotto, sede storica della FIAT. Mi sono immaginata come doveva essere via Nizza cento anni fa: una strada profondamente segnata dal lavoro industriale, dalla presenza di operai, di impiegati, di "padroni" (come un tempo si chiamavano gli imprenditori), di manufatti che segnavano la vita di una comunità.
L'identità operaia di Torino è un patrimonio culturale e sociale, oserei dire "antropologico", che nessuno osa mettere in discussione. Oggi mi aggiro in una città che, come tutte le altre città contemporanee, è stata chiamata ad elaborare una nuova identità, e mi sembra che lo abbia fatto con grande sapienza e con un ottimo risultato anche sul fronte economico.
Mi viene da pensare a Pistoia, con la via Pacinotti lungo la quale si affacciavano, in una teoria interminabile, i capannoni delle Officine San GIorgio e poi della Breda: oggi una strada-cantiere, dove la vecchia identità è morta, e quella nuova – del terziario avanzato – sembra ancora prigioniera degli OrsoGrill e delle gru. Mi viene da pensare a Aosta, alla Fabbrica Cogne, peraltro ancora attiva, sia pure in misura decisamente ridotta rispetto al Novecento. Ricordo con grande piacere la visita guidata, fatta alcuni anni fa, nel villaggio costruito dall'azienda attorno alla fabbrica: fatto di case degli operai, case degli impiegati, scuole d'infanzia, lavatoi pubblici. All'epoca la fabbrica dettava le regole del buon vivere civile, creava ricchezza e comunità. Penso a Pontedera, alla sua Piaggio e al Villaggio Piaggio, anch'esso – all'epoca – modello di comunità civica. Penso a Larderello, ai suoi soffioni, al paese costruito con grande lungimiranza e apertura al futuro dall'industriale De Larderel, che attorno allo stabilimento boracifero pensò agli asili per i figli degli operai, alla mensa, ai negozi.
Quanti altri esempi mi vengono in mente. Sono tante le biblioteche, oltre alla San Giorgio, ad essere ospitate in vecchi edifici industriali riconvertiti a nuova vita. E tante ne ho visitate. Penso a Prato, a Moncalieri, ma potrei continuare a lungo.
Questo mondo non è stato tutto bello: gli operai sono stati sfruttati spesso brutalmente, le campagne sono state depredate e devastate per ffar posto alle fabbriche, l'inquinamento è stato in certi casi disastroso. Il caso della Eternit di Casale Monferrato parla da solo. Quella dell'industrializzazione italiana, come ci ha insegnato a pensare Antonio Galdo nel suo bellissimo libro Fabbriche, è stata in parte una follia, che ha fatto scempio della storia e delle tradizioni, catapultando un paese agricolo e arretrato come l'Italia verso una modernità solo parziale, e mai governata fino in fondo.
Ma, pur con questa consapevolezza, mentre raggiungo l'ingresso del Lingotto per visitare il Salone del Libro, provo nostalgia per quella speciale stagione della nostra storia, nella quale il lavoro costruiva l'identità di una comunità, e la ricchezza si misurava con chiarezza nella produzione di beni. Era un mondo dove tutto risultava comprensibile: le dinamiche tra lavoratori e padroni, le battaglie per il miglioramento dei tenore di vita, la ricerca del benessere. Era un mondo, a suo modo, dove c'era spazio per la speranza in un futuro migliore.
Di questa speranza, di questa facilità con la quale attorno al lavoro ci si riconosceva come membri di una comunità di destino, provo una grandissima nostalgia. Oggi non c'è speranza e non c'è più il lavoro nel modo in cui siamo stati abituati a pensare. Oggi non è più possibile pensarsi come figlia di una vestaglia blu: si è tragicamente figli di se stessi, con un lavoro che non va trovato, ma va creato.
Io sono una donna del Novecento: ho difficoltà ad abituarmi a nuovi schemi mentali. Mi tengo la mia nostalgia per un mondo che ho conosciuto solo di striscio, e che tendo a idealizzare, in ragione del fatto che in quel mondo valevano, appunto, gli schemi mentali che forgiano ancora oggi la mia interpretazione del mondo. Non riesco a concepire una ricchezza sganciata dalla produzione dei beni (o dalla loro riduzione, nel senso della decrescita felice), non riesco a concepire una identità personale e collettiva sganciata dal lavoro.
In questo devo chiedere aiuto ai più giovani, perché mi permettano di continuare a comprendere, sia pure a fatica, un mondo che cambia ad una velocità superiore alla mia capacità di adattamento. Torino è anche questo per me: un ritorno alle mie origini di figlia del novecento. Per questo in via Nizza mi sento profondamente a casa.