Paola Mastrocola è una delle scrittrici italiane con le quali mi sento maggiormente in sintonia: scrive molto bene (cosa tutt'altro che scontata, in questi tempi cialtroni e trasandati) ed è stata la voce più autorevole e convincente nel denunciare il peccato mortale di cui si è macchiata la politica e la società italiana: avere rinunciato ad investire nella scuola, non considerandola più uno dei motori della crescita civile del paese.
Ho comprato il suo ultimo romanzo, Non so niente di te, con nel cuore un'alta aspettativa sulla qualità dell'imminente lettura, giocando anche sull'effetto distorsivo della "qualificazione" che l'autrice mostra nell'essere passata da Guanda a Einaudi.
Bella la storia, bello il registro narrativo, molto cinematografico, usato per dipanarla. Un ragazzo di buona famiglia, Filippo Cantirami, ha davanti a sé un futuro di successo perfettamente costruito: laurea triennale alla Bocconi, specialistica a Oxford e PhD a Stanford. Tutto pagato dai genitori, che su di lui hanno investito tutte le speranze di riuscita sociale e personale. E lui è davvero un bravo ragazzo, studioso, concentrato, con il pallino dell'economia, perfettamente in grado di superare gli ostacoli che i grandi istituti culturali gli pongono davanti. Peccato però che Fil senta che quella non è la propria strada. Per non dare un dispiacere ai genitori, scambia la propria biografia con quella di un compagno di studi, Jeremy, che subentra come suo alter ego, inviando decine e decine di e-mail ai signori Cantirami, per raccontare le piccole e grandi vicende vissute al posto del figlio prima in Inghilterra e poi in America.
In questa storia c'entano le pecore: le pecore che Fil si è ritrovato a curare, assieme ad un pastore cieco dell'Oxfordshire, e che porterà con sé al Balliol College, durante una conferenza sulla crisi economica a cui l'amico Jeremy lo ha invitato a partecipare.
Impossibile non sottolineare il valore simbolico di queste pecore, che – se da un lato sono lo strumento di un lavoro completamente opposto a quello che i Cantirami avevano voluto e costruito attorno al figlio – dall'altro rappresentano la scelta di quieto vivere che Fil ha rifiutato.
I genitori di Fil, la zia Giuliana, con cui Fil ha sempre avuto un rapporto speciale, si mettono sulle sue tracce, senza mai riuscire ad incontrarlo. Tra l'America e l'Inghilterra, i familiari di Fil faranno i conti con le proprie aspettative e una realtà amarissima da mandare giù, quella della autonomia del proprio figlio.
Il libro ci invita a riflettere sul ruolo di genitore nella costruzione della vita di un figlio. Per amor suo gli costruiamo sddosso un castello di aspettative, che però può diventare una prigione: perché noi non siamo nostro figlio, e non è affatto detto che lui sia d'accordo con i nostri sogni su di lui.
Quante volte, da figli, ci si è sentiti costretti a indossare vestiti non nostri, cuciti e tagliati dai nostri genitori a loro gusto? Quante volte abbiamo dovuto compiacerli, per amore loro, pur sapendo che la strada in cui ci hanno condotto non era la nostra? E quante volte da genitori ci è capitato di sapere cos'era bene per i nostri figli, senza chiedere loro nessun parere?
«Forse è proprio questo, papà. Dovreste essere curiosi, voi genitori, molto curiosi dei vostri figli. Morire dalla curiosità di vedere come diavolo andrà a finire. Invece siete sempre così scontenti, così incontentabili. Sembra che conosciate già tutto. Non vi lasciate sorprendere. Peccato. Vi private di una grande felicità».