Ieri è stato intercettato e fatto attraccare al porto di Reggio Calabria un barcone con 160 clandestini a bordo: uomini, donne e bambini disperati, fuggiti dalla guerra, dalla carestia e dalle brutture del mondo. Hanno pagato cifre altissime per poter sbarcare in Italia: 3.500 euro per un bambino, 5.500 euro per un adulto. Somme che dobbiamo moltiplicare per venti volte, se paragonate al nostro tenore di vita.
Tutti i profughi sono stati portati nello "scatolone", una palestra collocata nell'area dello stadio comunale: da lì, dopo l'identificazione, prenderanno la strada dei centri d'accoglienza. L'area è intensamente presidiata dalle varie forze dell'ordine. Ci raggiunge dalla TV la notizia che, durante le operazioni di soccorso, il comandante della polizia municipale di Reggio Calabria è stato colto da infarto ed è morto, a pochi metri dal figlio. Una tragedia nella tragedia.
Al porto, il barcone è rimasto attraccato senza particolari misure di sorveglianza: la puzza si sente da decine di metri. Il ponte è completamente ricoperto di rifiuti e stracci. Qualche sacchetto di plastica, ora abbandonato, contiene gli avanzi di quelle poverissime provviste di cui si sono cibati i fuggitivi. Basta gettare lo sguardo sotto il ponte per immaginarsi le condizioni in cui ha viaggiato chi ha avuto in sorte il posto nella pancia della barca, senza aria, con poca acqua, nel tanfo più insopportabile.
Vorrei che – al pari dei forni dei campi di sterminio – una barca del genere venisse conservata così come oggi la vediamo nel porto, e divenisse un oggetto didattico, da far visitare a tutti quei pasciuti signori che accusano lo Stato di occuparsi più degli stranieri che degli italiani.