Oggi sono in versione schiacciasassi: le cose da fare in ufficio sono tantissime, e non voglio perdere neppure un minuto per fare pipì. Per quanto sia consapevole che le mie assenze rientrano nel novero dei miei "diritti sacrosanti" (visto che per fortuna esse si limitano di solito solo al godimento delle ferie); per quanto sia consapevole delle innumerevoli ore in più del dovuto che ogni mese regalo alla mia Amministrazione, sapendo di regalarle alla comunità e alla città in cui vivo; nonostante tutto questo, mi sento un po' in colpa per le assenze di questi giorni. Rintuzzo questo sentimento, peraltro impropriamente provato, con una accelerazione sui risultati che mi fa sgommare velocemente da una riunione all'altra, da un'attività all'altra, portando a termine il numero più alto possibile di compiti e riempiendo di crocette la mia to do list giornaliera.
Nell'esercizio del lavoro quotidiano, a cinque anni dall'inizio dell'esperienza pistoiese, e a un anno dal ricollocamento nel ruolo di funzionario, provo le stesse sensazioni che provavo più o meno sei anni fa a Empoli, quando – pienamente padrona di tutti i processi e le attività in progamma – avvertivo la sfida della quantità come l'unica che riuscisse di fatto a mettermi alla prova. All'origine delle preoccupazioni quotidiane non c'era infatti, ora come allora, un sentimento di difficoltà o la paura della non riuscita, ma il disagio per l'affastellarsi di un numero di attività da smaltire sicuramente superiore a quello gestibile con una applicazione di 45 ore settimanali. Il problema, ora come allora, era meramente quantitativo.
Fu quella sensazione a guidarmi verso la scelta di una nuova avventura, nella quale mi sentissi sfidata anche nelle capacità e nei risultati. Si apre dunque una fase di consolidamento dei saperi e delle competenze. Una fase di accomodamento, direbbe Piaget. Chissà come sarà la nuova fase di assimilazione…