Il titolo del libro è di quelli particolarmente accattivanti. L'ho comprato alcune settimane fa alla Edison di Pistoia, intrigata dal periodo ipotetico che lascia intendere una "principale" tutt'altro che ottimistica: perché se Steve Jobs fosse nato a Napoli, probabilmente non avrebbe avuto la possibilità di creare la Apple.
Leggo il romanzo tutto d'un fiato: nei Quartieri Spagnoli di Napoli due ragazzi intelligenti e creativi dedicano la mente e il cuore ad un'idea che si rivela geniale – un computer superpotente e superleggero, che parte in un secondo e non si fa colpire dai virus. Stefano Valori (il nostrano Steve Jobs) e Stefano Vozzini (il nostrano Steve Wozniak) hanno un prototipo perfetto, pronto a sfondare sul mercato. Ma non hanno soldi per partire: in banca trovano solo porte chiuse, perché non hanno garanzie immobiliari da presentare a sostegno della loro idea; i commercialisti che incontrano sembrano più intrallazzatori da quattro soldi che veri e propri professionisti; la Regione sostiene, sì, le idee dei giovani, ma per ricevere i contributi bisogna aspettare due anni. Per non parlare dei piccoli camorristi di quartiere, che non possono certo lasciarsi scappare un bocconcino come la nuova azienda di computer installata nel garage di casa. Tra attentati e tasse da pagare, i due giovani sono costretti ad abbandonare il proprio sogno. Perché in Italia, e specialmente a Napoli, si può anche essere affamati e folli, ma si rimane solo con la fame e la follia, senza che nessuno offra l'occasione per dare corpo ad una idea innovativa.
Antonio Menna ha sviluppato in un libro dolce-amaro la storia che aveva abbozzato in un suo post dello scorso ottobre (vedi), con il quale aveva lanciato una vera e propria "bomba" in termini di commenti e discussioni in tutta Italia.