Ho rivisto volentieri il film “Barriere” (Fences), interpretato da un magistrale Denzel Washington e da una strepitosa Viola Davis, che non a caso ha vinto l’Oscar come miglior attrice non protagonista con questa pellicola: prima che al cinema, la coppia Washington-Davis aveva portato a teatro la vicenda di Troy Maxson, netturbino nero di Pittsburgh, dando lustro a uno dei dieci drammi di August Wilson (vincitore del Premio Pulitzer) solitamente identificati sotto l’etichetta The Pittsburgh Cycle. Il film è stato criticato per non essere riuscito a valorizzare cinematograficamente una storia nata per il teatro, ma difficile da spendere sul grande schermo. A me è invece piaciuto, perché, rispetto a tante storie ispirative, dal retrogusto dolce, esso racconta una vicenda che non lascia spazio al riscatto e alla speranza.
Le barriere a cui fa riferimento il titolo non sono rappresentate soltanto dallo steccato di legno che Troy vuole costruire attorno alla sua casa per proteggerla dal mondo esterno: sono anche le barriere interiori che lui innalza a difesa del proprio modo di essere nero, di gestire la famiglia, di rapportarsi con i figli, di cui è particolarmente fiero, senza rendersi conto che esse hanno contribuito alla sua emarginazione e alla infelicità della sua famiglia: una famiglia sconquassata affettivamente dalla sua crudele interpretazione del mondo, che non lascia spazio ai bisogni della moglie, dei figli e del fratello, ma impone ad essi la propria assoluta volontà, percepita come giusta e indiscutibile.
Orgoglioso di essersi sacrificato per garantire un tetto sopra alla testa dei propri cari, in realtà ha beneficiato di un forte indennizzo che il governo degli Stati Uniti gli ha liquidato a favore del fratello Gabe, rimasto vittima di un incidente di guerra e perciò incapace di mantenersi in forma autonoma. La moglie ha sacrificato i propri talenti e le proprie speranze per lui, così come i due figli maschi sono cresciuti nel dolore, agognando l’amore e la comprensione del padre, di cui continuano ad andare in cerca, senza mai ottenerla. Sul finale del film, arriverà anche una terza figlia, avuta da una relazione clandestina con un’altra donna, morta di parto: la bambina entrerà a far parte della famiglia, incrementando la promiscuità (tre figli da tre donne diverse) che all’epoca si rilevava con frequenza nelle famiglie di colore, e che la moglie ha invano combattuto, alla ricerca di una dignità nera che invece non è riuscita a raggiungere.
Il film sembra fornire una interpretazione particolare sul tema del riscatto: il miglioramento che possiamo ottenere nella vita parte prima di tutto dalle nostre teste e dai nostri cuori. E se teste e cuori sono rinchiusi dentro uno steccato, il nostro destino rimarrà bloccato, e non soltanto per colpa della società o degli altri.