Oggi vorrei parlare male dello smart working. O, più precisamente, esprimere il mio personale dissenso contro una vulgata che rischia di consolidarsi, facendo passare per “tranquilli” alcuni ragionamenti che invece meritano di essere messi in discussione radicalmente.
Con l’approssimarsi della fine dell’emergenza pandemica, c’è da decidere che fare del lavoro a casa (parlare di smart working, in effetti, è forse un troppo pretendere). Gli orientamenti prevalenti, avallati dalla normativa approvata (e forse ancora poco applicata) sono tutti a favore della sua progressiva normalizzazione. Detto in poche parole, la lezione della pandemia ci ha insegnato che esistono altri modi per gestire il lavoro, e che possiamo riorganizzare almeno in parte la vita delle persone trasformando le sperimentazioni realizzate in prassi ordinaria. Tutto ciò ci permetterebbe – si dice – di non perdere in produttività, ma di risparmiare molto, o almeno qualcosa, sul fronte ambientale (minore inquinamento per la riduzione del traffico causato dagli spostamenti), sul fronte personale (niente ore perse al mattino e alla sera per attraversare la città e raggiungere il proprio ufficio), sul fronte economico (le aziende risparmiano molto sui costi secondari generati dalla presenza del personale in ufficio). Tutte considerazioni che qui non discuto, immaginando che possano avere il loro perché.
Ma c’è una considerazione importante su cui voglio davvero riflettere: far lavorare le persone da casa viene considerata come una soluzione efficace per migliorare la qualità della vita delle persone stesse, permettendo loro di ottenere risultati più soddisfacenti in termini di bilanciamento tra le esigenze di lavoro e i bisogni della vita personale. Detta così, la frase non sembra ancora pericolosa: in effetti, se io risparmio (per dire) due ore al giorno di viaggio, è ovvio che guadagno qualcosa di importante per la mia vita, potendo ad esempio dormire un’ora in più al mattino, o comunque potendo riallocare una parte importante della mia giornata, che prima di fatto andava persa, spostandola verso altre attività più utili per me (compreso il non fare niente, ovviamente).
Proviamo ad andare ancora più avanti, avvicinandoci ancora un po’ alla scarpata in un cui rischiamo di cadere: se io posso organizzare il mio lavoro, distribuendolo nella giornata secondo una modalità più flessibile rispetto all’orario classico d’ufficio, posso essere in grado di inserire agevolmente nella mia agenda alcune operazioni che prima mi erano del tutto precluse: posso andare a prendere mio figlio all’uscita dalla scuola e accompagnarlo a lezione di basket, per poi riprenderlo al ritorno, dopo essere passata dalla lavanderia a ritirare il piumone lavato e aver comprato anche il mazzo di fiori da consegnare all’amica che stasera festeggia il suo compleanno. Una volta sbrigate le commissioni che prima erano fuori portata, torno a casa, metto a tavola la famiglia, mi preparo per uscire, mi godo la festa dall’amica, e magari domattina presto, quando ancora tutti dormono, completo il lavoro che mi è stato assegnato: giusto in tempo perché il mio capo lo esamini e possa validarlo o istradarlo verso il suo compimento. Miracoli della flessibilità! Una vera pacchia potersi organizzare in libertà, giostrandosi tra le diverse necessità del giorno, fino a trasformare l’agenda quotidiana nella nostra assistente personale, e non nella kapò pronta a punirci per ogni violazione a regole e vincoli del tutto assurdi.
Noi donne, poi, siamo campionesse mondiali di organizzazione: mettere insieme mille impegni diversi, per far tornare tutto alla perfezione, è la nostra specialità. Agogniamo la libertà di poter praticare uno sport così gratificante per noi. E proprio per questo siamo in molte a guardare all’opportunità dello smart working come all’architrave di una possibile riorganizzazione della nostra vita. Sempre che il tipo del lavoro che svolgiamo renda questa strada praticabile. E qui non vogliamo nemmeno entrare nel merito dei milioni di casi in cui una tale flessibilità non rientra tra le opzioni possibili.
Dunque, mettiamo che questa opportunità sia perfetta per il tipo di lavoro che svolgiamo, e che scegliere questo regime, magari solo per alcuni giorni alla settimana, ci aiuti tantissimo nel mettere insieme i vari pezzi della nostra vita, trasformandoli nelle tessere di un perfetto Cubo di Rubik. Eccoci qui, sull’orlo della scarpata. Buttiamoci di sotto spiccando il grande salto.
Con lo smart working, lavoriamo e nel frattempo possiamo prenderci cura degli anziani di casa, senza bisogno di pagare fior di soldi per una badante, con tutte le problematiche connesse ad una presenza estranea in casa: abbiamo solo da dar loro le medicine all’ora giusta, far sentire loro che ci siamo, sorvegliarli quando vanno in bagno e accertarsi che non si facciano del male mentre cercano di tenersi occupati. O abbiamo un disabile in casa, che ha bisogno di essere assistito per le ore in cui non riceve l’assistenza pubblica. O abbiamo da andare alla posta a pagare le bollette, e il nostro orario standard coincide con quello dell’ufficio postale. E i bambini, che sono vivi anche quando la scuola è chiusa, che sono in DAD, che sono a casa oggi perché c’è l’assemblea delle maestre, che non possono trascorrere l’estate intera dai nonni a mille chilometri, anche se ogni tanto il sogno di sbolognarglieli da giugno a settembre si affaccia pavidamente, solo per un istante, sulla soglia della nostra coscienza.
Come ci sentiamo sul fondo della scarpata? Siamo certe davvero che lavorare da casa, tra un impegno e l’altro, saltabeccando da una parte all’altra della nostra personale biografia, sia davvero un gran guadagno? Io credo invece che sia una tremenda e terribile sconfitta. Perché getta sulle nostre spalle tutto l’onere derivante da enormi obblighi familiari e sociali, rispetto ai quali la società si tira indietro, perché gioca sul fatto che noi siamo brave a farcene carico, a costo zero per tutti gli altri. Nessuno si arrovella a creare asili nido aziendali o pubblici, se le donne stanno a casa a badare i loro bambini: il bisogno sociale svanisce, l’azienda e il Comune risparmiano, e tutti sono felici e contenti. L’emergenza gravissima dei genitori anziani, che ha reso migliaia di donne prigioniere della famiglia d’origine, nella tragica attesa di una liberazione che è umanamente peggiore della prigionia, non è forse rimasta sottotraccia in tutte le politiche sociali del nostro Paese, a livello nazionale e locale, perché qualcuno ha risolto il problema caricandosi gli oneri su di sé? Quale governo, quale amministrazione comunale, quale azienda sanitaria si prende cura di un problema che qualcuno ha personalmente deciso di risolvere sacrificando se stesso?
Lo smart working rischia di essere la grande, sontuosa imbottitura che attutisce le difficoltà di una società che non si prende cura dei bambini e degli anziani, e implicitamente chiede alle donne di trovare soluzioni personali intelligenti, possibilmente a costo zero per le finanze pubbliche e per quelle aziendali. Pensiamo davvero che l’unica risposta possibile alle lacune del nostro contratto sociale sia quella di arrangiarsi con soluzioni personali, sacrificandosi giusto un po’, e gabellando tali sacrifici per “soluzioni intelligenti”? No, assolutamente no.
Credo invece che debba crescere in tutti noi (prima di tutto tra le donne, ma anche tra i tanti uomini che condividono le nostre battaglie) la consapevolezza che dietro i miti del bilanciamento tra vita e lavoro c’è in agguato una enorme mistificazione, che ci fa barattare il guadagno immediato derivante da una soluzione momentanea con un investimento di lungo corso su una politica sociale in grado di dare risposte collettive, e non di succhiare energie aggiuntive alle singole persone.