Oggi è stato un sabato sicuramente diverso dal consueto: per otto ore tra mattina e pomeriggio sono stata coinvolta nel seminario Cultura come cura, un webinar on line organizzato dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Pescara-Chieti, in collaborazione con la Direzione Generale Creatività Contemporanea del MIBACT, sul tema della rigenerazione urbana a base culturale dei quartieri prioritari e complessi al tempo del Covid-19. Al centro dell’attenzione il progetto INsegnalibro, narrazioni di comunità finanziato dal MIBACT nell’ambito del piano Cultura futuro urbano: un progetto che ha coinvolto numerosi soggetti della città di Pescara, impegnandoli in azioni a favore della valorizzazione delle energie presenti nelle periferie di quel territorio. La seconda parte del pomeriggio ha visto invece dare spazio a una selezione dei progetti provenienti da altre città, che hanno usufruito del finanziamento ministeriale. Tra questi, il progetto “Non lasciare indietro nessuno”, predisposto dalla San Giorgio di Pistoia.
Il seminario è risultato estremamente utile e interessante: non a caso per tutta la giornata (ed era sabato!) i partecipanti sono sempre rimasti attorno alla cinquantina, mentre verso le 19 si sono ridotti a poco più di 30, dando prova di una grandissima, insperata tenuta.
Al centro dell’attenzione, la riflessione sugli effetti della narrazione che accompagna il concetto di periferie: luoghi non raggiunti dai servizi pubblici, marginali non solo dal punto di vista geografico, ma anche e soprattutto dal punto di vista sociale ed economico; spazi brutti e mal tenuti, degradati dall’assenza di manutenzioni pubbliche e dall’incoscienza colpevole di architetti che si sono esercitati nella realizzazione di mostri architettonici in grado soltanto di ghettizzare le persone, non offrendo loro le condizioni per una vita personale e sociale dignitosa. Luoghi ormai infestati dalla malavita, dai quali è bene tenersi il più possibile lontani per evitare di correre il rischio di essere rapinati, malmenati o peggio. In questi luoghi vivono disperati, disgraziati, marginali: gli ultimi del mondo, e perciò anche brutti, sporchi e cattivi. E anche pericolosi, perché magari hanno occupato abusivamente i tuguri in cui abitano, si lavano poco (ad averla, l’acqua corrente), non rispondono ai requisiti estetici del fashion.
In realtà gli studiosi intervenuti al seminario sono impegnati da anni a raccontare un’altra storia: una storia diversa, in cui – a partire da ricerche condotte sul campo – è stato possibile mostrare, dati alla mano, l’associazione tra marginalità e degrado morale non funziona in molti territori, perché, se è vero che la criminalità esiste e prospera in quei territori, è altrettanto vero che è percepita da chi ci abita come un peso, e non già come un punto di forza. Oggi alcune periferie si stanno mettendo in evidenza come luogo della produzione culturale, ricche di energie da riconoscere e valorizzare, supportandole per la riqualificazione dei quartieri. Gli abitanti cominciano a prendersi cura del proprio ambiente di vita, a mettersi insieme per creare comunità, capitale sociale, motore di sviluppo: l’effervescenza culturale diventa la risposta resiliente di comunità che sono state abbandonate dalle istituzioni, ma che vogliono essere protagoniste del proprio futuro.
Le storie raccontate dagli esperti ci riportano alle scelte urbanistiche che dal secondo dopoguerra in poi, passando dal Piano Fanfani del 1948 per arrivare all’edilizia economica e popolare della L. 167, hanno creato il disagio abitativo e fatto degenerare le relazioni sociali, imponendo un modello di sviluppo creatore di disuguaglianze. oggi nelle nostre città troviamo “enclavi” (aree dove si vive benissimo, ricche di tutte le opportunità sociali, culturali, commerciali, sanitarie) e “ghetti” dove non c’è niente di tutto questo e il diritto ai saperi è interrotto. Se la città è storicamente un dispositivo educativo e di emancipazione, definendo lo spazio del politico, alcune aree della città (non esclusivamente periferiche in senso geografico) sarebbero tagliate fuori da questo processo, se non ci fossero gli abitanti pronti ad auto-organizzarsi. Queste esperienze di attivismo e auto-organizzazione hanno spesso di evitare derive esplosive, come nel caso di Tor Bella Monaca a Roma.