L’industrializzazione italiana, e con essa la prosperità economica, hanno affondato le proprie radici nell’impresa a carattere familiare: a dare avvio al miracolo c’è stato quasi sempre un padre partito da zero, che ha lasciato il lavoro nei campi per fondare una sua fabbrica, inseguendo il sogno dell’uscita dalla miseria. Ed è nella fabbrica, tra mille sacrifici e mille difficoltà, lavorando senza sosta, che il padre fondatore dell’impresa, è riuscito a tradurre il suo sogno in realtà: qui ha dato vita ad una famiglia più vasta, costituita dagli operai, dai tecnici e dagli impiegati suoi dipendenti, diventati ai suoi occhi più figli dei figli veri.
E’ andata così anche per la famiglia del protagonista di questo romanzo: un uomo che – nonostante studi in segreto letteratura all’università – si è trovato la strada segnata, ed ha accettato di seguire le orme del padre, che insieme al fratello aveva messo in piedi un’azienda meccanica di successo. Ma al momento in cui si svolgono i fatti ormai il miracolo si è inceppato: i due fratelli hanno dovuto cedere il passo ad un amministratore delegato che spadroneggia in azienda, senza curarsi delle persone che vi lavorano, ma che è interessato soltanto a portare a casa il profitto, costi quello che costi: gli operai e le loro famiglie non contano più niente, non conta più la storia e la relazione con la comunità. Nel mondo globalizzato non c’è più spazio per il cuore, ma solo per il guadagno a breve termine: giusto quello che riempie le tasche prima di passare a fare tagli in un’altra azienda.
Pur essendo il figlio del padrone, il “Poeta” (così si fa chiamare il protagonista, accettando di essere preso in giro per il suo amore per la letteratura) si sente più vicino agli operai che al nuovo manager: con molti di loro ha una lunga storia in comune, fatta di duro lavoro e di innocue partitelle durante la pausa pranzo. Vorrebbe avere la forza di mollare tutto, ma ha tra le mani una commessa milionaria in America, in grado di garantire all’azienda un futuro solido: ma scoprirà che neppure questo grande investimento sull’avvenire potrà salvarlo dalla sconfitta.
Sconfitta, appunto: questa la chiave di lettura di un romanzo che racconta, con leggerezza e devozione, la fine infelice di un modello produttivo incapace di rinnovarsi in tempo, di cogliere i cambiamenti in atto e adeguare la propria visione adattandola ad un mondo in trasformazione. Una sconfitta nella quale gli avversari (la “classe avversa” del titolo) non stanno nel campo dei lavoratori, che dalla fine dell’industria hanno tratto solo impoverimento e perdita di identità, ma stanno nel campo di chi quella grande ricchezza ha costruito ma non è stato capace di mettere a frutto nel tempo.
Un bel romanzo industriale, che cita Ottiero Ottieri (lo scrittore che possiamo considerare il capostipite della letteratura industriale italiana) quasi a tributare il proprio debito morale nei confronti di chi – narrando l’industrializzazione delle origini – poteva gustarsi la speranza in un mondo che regalava mille promesse, e che invece ha lasciato dietro di sé macerie morali e materiali.
Alberto Albertini
La classe avversa
Matelica, Hacca, 2020