Intimistico e nel contempo specchio verace della generazione nata negli Anni Cinquanta, misurato sulle vicende individuali dei protagonisti ma assieme rappresentativo di un mondo che non c’è più, l’ultimo romanzo di Paola Mastrocola ci fa ripercorrere un pezzo importante del nostro recente passato, filtrato attraverso gli occhi e il cuore di una bambina, Donata Mancasciulla, venuta al mondo a Torino il 1° ottobre 1956, quando ormai i suoi genitori avevano perso la speranza di poter avere un figlio. Ed è così che la piccola Donata (o meglio, la Donata adulta che ripercorre ricordi ed emozioni della propria infanzia) si convince di essere venuta al mondo proprio con lo scopo di rendere felice la sua mamma, esaudendo quel profondo desiderio di maternità che la donna si era ormai rassegnata a mettere a tacere per sempre.
La piccola famiglia in cui Donata nasce e cresce a Torino, negli anni dello sviluppo industriale, è unica, come tutte le famiglie, ma nel contempo rappresentativa di un’epoca speciale della storia italiana: il padre è di origine abruzzese, ed è riuscito a sfuggire al proprio destino, che lo voleva contadino e pecoraro, per diventare prima poliziotto e poi impiegato alla FIAT, con tanto di diploma di ragioneria ottenuto studiando di notte, al lume di una candela, per poi alzarsi all’alba e raggiungere a piedi una scuola lontana chilometri. La mamma è piemontese, e con il suo lavoro di sarta, apre le porte di casa a donne di condizione sociale più elevata, che la mettono in contatto con un mondo ricco di opportunità e speranze. Entrambi i genitori appartengono alla generazione dei sacrifici: straordinari in ufficio e lavori di cucito fino a notte fonda, per potersi costruire – passo dopo passo – quella vita dignitosa che non ha spazio per i lussi, e che i lussi ha imparato a non desiderare. A Torino, d’altronde, i tram funzionano così bene che non c’è bisogno dell’automobile, così come la pelliccia di visone può essere sostituita benissimo da una giacchetta di agnellino, nei giorni più freddi. Nella vita della famiglia di Donata c’è spazio solo per i debiti e le rate, da onorare fino all’ultimo centesimo solo rinunciando a quello che viene giudicato superfluo: d’altronde, c’è la casa da comprare, i mobili nuovi, gli elettrodomestici che stanno entrando nelle case di tutti, e anche l’enciclopedia per la bambina, che certo non dovrà avere difficoltà per istruirsi, così come è successo a loro. “Tirare la cinghia” è l’espressione che Donata sentirà dire più spesso dai genitori, impegnati la sera a far quadrare la propria economia domestica, puntando a quel riscatto sociale di cui sono orgogliosi ma che sembra sempre sfuggire loro.
Anche la bambina fa sua la logica del sacrificio, scegliendo di rendere felice la mamma come può, e stando alle regole che i genitori le impongono “per il suo bene”, mandandola alle colonie estive, accompagnandola ogni giorno al parco per giocare con gli altri bambini, o abituandola al pesantissimo rito delle vacanze in Abruzzo, presso la famiglia paterna, dove l’infelicità della madre – costretta a cucire per tutto il parentado – le brucia più della propria, facendole dolorosamente misurare una distanza incolmabile tra quel mondo (sporco, povero, puzzolente) e il mondo nel quale è abituata a vivere tutto il resto dell’anno.
Donata è una bambina timida, che si sente fuori posto ovunque: le poche amicizie che riesce a costruire da bambina sono destinate a finire improvvisamente, ripiombandola in quella solitudine che diventa un vero e proprio canone di vita. La sua salvezza sarà rappresentata dal rapporto con i libri e la scrittura: “Leggevo e piangevo. Le parole a un certo punto mi arrivavano negli occhi annacquate, come avessi passato un lago. Ed era quel leggere piangendo che mi consolava: entravo talmente in quelle storie che uscivo da me. Per piangere meglio, non ero più io. E anche quando poi rientravo, non assomigliavo più alla bambina della sarta. Ero molto di più. Ero stata un’orfana, un naufrago, un principe, una serva, un giovane che perde la gamba, e da tutto ero uscita indenne. Qualsiasi cosa fossi diventata, ora ero invulnerabile. Non poteva succedermi più niente di male. Per questo parlo di consolazione, quando si legge. Ma ci vuole una ferita, per leggere” (p. 177).
Il libro si presta anche ad altre chiavi di lettura, di natura più intimistica e meno sociale: i ricordi che ci formiamo nell’infanzia, e che diventano storie vere a mano a mano che li raccontiamo e li consolidiamo nella memoria, rispondono a verità, o sono menzogne che coltiviamo spacciandole per accadimenti reali, almeno finché qualcuno non ci racconta come sono andate davvero le cose?
Paola Mastrocola
La memoria del cielo
Milano, Rizzoli, 2023