La visione del film “L’avversario” (ispirato all’omonimo romanzo di Emanuel Carrère) ha rappresentato per me una esperienza significativa e una bella occasione di riflessione. Le bugie fanno parte della vita di tutti noi: chi mai non è ha detta neppure una? Non voglio certo ripercorrere la mia già lunga vita, alla ricerca delle bugie dette. In genere le bugie che mi è capitato di dire sono state tutte “bianche”, ovvero a fin di bene, o comunque innocue. Del tipo dire di avere “quasi finito” un lavoro che invece avevo appena cominciato, tanto per non creare eccessi di ansie nel mio interlocutore (uh quante volte ho detto al mio amico Massimo Belotti, direttore di Biblioteche oggi, che l’articolo che dovevo consegnargli era praticamente pronto, mentre non avevo ancora cominciato a scriverlo! Se si andasse all’inferno per questo, vivrei lì da tempo in una super-villa vista fuoco!); o meravigliarsi di fronte alla notizia data da un’amica, che magari sapevo di già, giusto per non privarla della soddisfazione di avermi regalato una primizia.
Non ce la farei mai a dire bugie serie: perché richiedono un impegno di elaborazione e tenuta sul lungo periodo a cui sono certa di non saper far fronte. Se per esempio sostenessi di avere un fratello che insegna alla Sorbona a Parigi, mettiamo il caso, dovrei quanto meno documentarmi sull’organizzazione degli studi in quella facoltà, conoscere la localizzazione delle diverse sedi, trovare scuse diverse per dire ai miei amici che mio fratello non è venuto a trovarmi neppure quest’estate, oppure assoldare un attore capace di recitare la parte di mio fratello, giusto per presentarlo alle amiche. Insomma, troppo complicato e troppo difficile. La realtà vera sarà pure poco interessante, ma almeno è facile da gestire. Così, quando ho saputo della storia vera che sta dietro questo film – la storia di un uomo che si è finto medico per 18 anni, e che poi ha sterminato tutti i familiari per non far provare loro il dolore dell’inganno – non ho resistito alla voglia di guardare questo film, splendidamente interpretato da Daniel Auteuil.
La vicenda prende le mosse da un particolare irrisorio, dal quale si diparte la tragedia della doppia verità: al secondo anno di medicina, il protagonista non riesce a superare un esame universitario. Si tratta di un incidente di percorso di per sé quasi insignificante nella biografia di uno studente. Ma quella piccola sconfitta non viene sanata: il giovane Jean-Claude Romand (che nel film diventa Jean-Marc Faure) non si presenta alla sessione successiva per riparare al danno e proseguire nel suo percorso, ma sostiene invece di avere superato l’esame, e da lì comincia a tessere una trama sempre più fitta di bugie in cui finisce per rimanere prigioniero. Continua a studiare in compagnia dell’amico, ma non sostiene più alcun esame; dice di essersi laureato e di aver trovato un bel posto di ricercatore all’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra, ma in realtà ogni giorno esce di casa verso il nulla, per poi rientrare la sera come se tutto fosse accaduto davvero. Per alimentare la propria finzione, e garantire alla sua bella famiglia un tenore di vita adeguato alla sua importante posizione sociale e professionale, aggiunge menzogna a menzogna: si fa consegnare denaro da familiari e amici fidati, con la scusa di investimenti sicuri e ad alto rendimento, con cui copre le spese per la casa, la scuola privata dei bambini, la macchina di lusso e tutto ciò che gli serve, alberghi compresi, per rimanere fuori casa in occasione di fantomatiche missioni di lavoro.
La cosa che mi ha sconcertato di più in questa storia (e nelle tante storie analoghe a questa) è la facilità con cui si giunge al momento del non-ritorno: quando, cioè, da una situazione ancora risolvibile, come ad esempio il caso di un esame universitario non superato, si passa ad una situazione nella quale si diventa prigionieri della propria menzogna, e per sopravvivere in questo contesto bisogna soltanto aggiungere nuove menzogne. Sono tante, in effetti, le storie di studenti universitari fuori sede, che hanno taciuto le loro difficoltà, e che proprio alla vigilia della tesi di laurea – spesso sotto gli occhi dei parenti arrivati da lontano per festeggiarli – hanno preferito suicidarsi piuttosto che reggere l’impatto della vergogna. Sullo sfondo, il tragico impatto delle aspettative di riscatto sociale che la famiglia ha messo in gioco sul futuro del figlio: aspettative con le quali la vittima non è riuscita a fare correttamente i conti, magari prendendosi più tempo o affrontando il “lutto” di un cambiamento di prospettiva.
Ci vuole veramente un attimo per rimanere prigionieri: e in quest’attimo la persona deve far affidamento a tutte le proprie risorse interne per fondare il proprio futuro sulla consapevolezza di essere qualcosa di più e di diverso dal modello che aspira a realizzare.
Rimango comunque sbalordita di come, nella loro frequenza tutt’altro che bassa, casi del genere possano essere gestiti con un certo successo anche per un numero significativo di anni: com’è possibile non essere scoperti, non cadere in contraddizione, non entrare in contatto con altre persone in grado di smentire all’istante le storie raccontate? Come farei a dire in giro di essere la direttrice delle biblioteche pistoiesi, se nel 2008 non avessi davvero vinto il concorso e al mio posto ci fosse un’altra persona? Quanto ci metterebbe chiunque a stanarmi? Sicuramente all’epoca di internet gestire una vita parallela è più difficile che in passato: ne è una prova il battage costruito attorno al CV del prof. Conte, alla vigilia della sua nomina a presidente del consiglio. Tutti a spulciare tutto, e a fare verifiche sulla rispondenza tra quanto dichiarato nel CV e quanto effettivamente successo. Probabilmente la distanza fisica può aiutare: se vivo a Livorno e ogni giorno mi sposto verso Pistoia, può darsi che i miei vicini di casa livornesi non abbiano parenti che vengono a trovarli da Pistoia, né decidano di farmi una sorpresa in ufficio, il giorno che vengono a Pistoia per visitare lo zoo o partecipare a Dialoghi sull’uomo. Ma quante volte potrebbe andarmi bene incontrare gli amici al bar della San Giorgio, spacciandomi per la direttrice? E se qualcuno di loro, magari arrivato in anticipo sull’orario di appuntamento, chiedesse di me al Banco Accoglienza, e io risultassi essere la signora nessuno, come la metterei ai loro occhi? Insomma, davvero troppo stress, troppa fatica vivere una doppia vita: molto meglio accontentarsi di quella che si ha, e magari – già che ci siamo – darle una lucidatina ogni tanto, per essere al meglio di quello che si può: più per noi stessi, che per gli altri.
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