Prima dell’estate capitava di frequente che nei discorsi condivisi con altri colleghi uscissero frasi del tipo: “A settembre dovremo rivedere questa cosa”, “Ne parliamo a settembre”, “Da settembre in poi sarò necessario cambiare questa procedura”. Settembre come un vero e proprio spartiacque tra un prima e un dopo, ancor più un vero e proprio incubatore di innovazione nella risoluzione dei problemi.
A dar retta a tutte queste promesse, settembre avrebbe dovuto durare almeno un paio di mesi; ma poiché gli è capitato di durare solo il suo tempo, come c’era da aspettarsi, è successo che tutto ha preso a correre molto più velocemente del solito. Ogni giorno, un passo di marcia che non ha mai lasciato spazio né al riposo, né al resto della vita, né – più specificamente – a quel fatidico tempo di elaborazione e approfondimento che non dovrebbe mai essere sacrificato sull’altare della produzione.
Dopo 9 mesi, che cosa è diventato il mio lavoro, che cosa sono diventata io? Difficile ancora da dire con esattezza, se non altro perché non si è ancora concluso quel “giro d’anno” che apre la prospettiva sull’intero set delle cose da fare, e permette di cominciare anche a organizzare sia pure un primo e provvisorio bilancio. Ma la voglia di sapere in anticipo se per i prossimi 5-6 anni sarà questa la minestra da mangiare, per non saltare la finestra, è forte e si impone all’attenzione non solo mia, ma dei miei tanti compagni di viaggio.
Cambiare identità professionale dopo 34 anni non è stato facile: ha significato riposizionare in modo diverso tutti i paletti di cui si è picchettato un percorso molto lungo, ha significato esplorare spazi nuovi, uscire dalla propria comfort zone per affrontare territori in gran parte inesplorati. In me si è consolidata l’idea di portare la me stessa di prima in un contesto più grande, cambiando la scala delle distanze e facendo mia la mappa di un territorio finalmente vasto, più aperto del precedente, ma anche non familiare.
Il mio gruppo di lavoro è passato da 30 a 100 persone, più o meno, richiedendomi una forte e inusitata differenziazione nelle finalità, negli argomenti quotidiani, nei temi trattati, nei progetti “al fuoco”. Da colonnello col suo plotone di soldati a generale alla guida di una compagnia gestita da cinque, sei colonnelli: tutti colleghi di esperienza, in grado di farsi carico delle specifiche problematiche, in un contesto già consolidato di deleghe nella catena di comando. Il peso della burocrazia è necessariamente cresciuto: da operatore culturale sono diventata una burocrate, una firmatrice, una passacarte. Ma per me “burocrate” non è una parolaccia: le firme (digitali) e le carte (digitali) da passare fanno parte di un gioco buono, che fornisce garanzie di regolarità e trasparenza ad ogni nostra azione.
Il disegno complessivo del passaggio da funzionario a dirigente di un servizio molto più grande è piuttosto leggibile: racconta il mio coinvolgimento in centinaia di cantieri progettuali diversi, aperti tutti assieme nella quotidianità, e che reclamano un intervento molto differenziato, che va dalla semplice firma digitale a corredo di una comunicazione esterna preparata da altri ad uno studio specifico volto a risolvere problematiche in grado di bloccare la conclusione di quel cantiere. Tra un estremo e l’altro, una pletora di adempimenti amministrativi che si traducono in moduli da compilare, riscontri da fare, verifiche e rendiconti nei confronti degli enti sovraordinati o dei finanziatori; a volte gli adempimenti hanno come beneficiario potenziale il cittadino, messo nelle condizioni di esaminare ogni mossa venga prodotta all’interno della pubblica amministrazione, vera e propria casa di vetro.
Gli esperti di management a questo punto si appellano ad un buon sistema di deleghe all’interno del quale chi è al vertice di una struttura del genere è chiamato a concentrarsi sulle priorità, lasciando alla cura di altri tutto ciò che non risulta essere davvero determinante nel contesto complessivo della macchina in movimento.
Peccato che gli esperti, così presi nella messa a punto delle loro belle teorie, non facciano mai una capatina in ufficio, tra le 8.30 e le 19.30, per gettare uno sguardo su che cosa succede davvero. Io, che invece in ditta passo tutte queste ore ogni giorno, mi sento di segnalare loro alcune piccole verità, in grado di rendere molto meno funzionali le loro teorie.
PRIMA VERITA’: tra le cose da fare non esiste una differenza di valore tale da poterle effettivamente collocare lungo una scala gerarchica di priorità. Al netto dell’evidente necessità di rispettare le scadenze imposte da altri (per cui un obiettivo può diventare più urgente di un altro), ogni singolo passo ha il suo peso nel contesto complessivo, e deve essere compiuto più in fretta possibile, pena la creazione di un grosso problema più avanti. Se non parte un ordine con la mia firma, se quella firma non viene apposta, non si attiverà quel gran bailamme che permette a Elisa a cantare in Piazza Duomo, che porta i libri nuovi in biblioteca, che consente ai nostri colleghi di promuovere Pistoia ad una fiera del turismo, e così andando avanti all’infinito. Il principio vero da far valere non è il rispetto della priorità, ma l’attenzione a far sì che tutti coloro che debbono andare avanti con le loro procedure trovino in me non un imbuto che li rallenta, ma un facilitatore che li accompagna lungo il percorso. Una giornata passata ad apporre firme digitali su lettere d’ordine, contratti e atti amministrativi è dunque una giornata “produttiva”, pur apparentemente trascorsa nella prigione di una casella di posta elettronica che sputa adempimenti in media ogni due minuti.
SECONDA VERITA’: il mio è un lavoro relazionale, che si gioca sui contatti con le persone, interne ed esterne all’organizzazione. Sono sola solo quando vado in bagno, ma anche in quel momento sono almeno due o tre i colleghi e le colleghe a sapere che cosa sto facendo esattamente. Quando sono a pranzo al bar, capita di frequente che le persone che hanno bisogno di dirmi qualcosa si fermino e dicano: “Approfitto di trovarti qui, per chiederti questo o quello” – non riconoscendo cittadinanza al mio diritto di consumare un panino in pace, almeno per quei dieci minuti al giorno. Da sempre nel mio ufficio la porta è aperta: sarà che la maniglia è rotta, e se la chiudessi rimarrei prigioniera fino all’arrivo dei soccorsi; sarà che è completamente di vetro, e quindi, aperta o chiusa, non mi protegge mai dagli sguardi altrui. E da quella porta sanno di poter passare tutti, o almeno molti dei colleghi: per condividere una problematica, per dare una notizia, per chiedere un aiuto. In quelle che altri potrebbero interpretare come interruzioni al flusso principale dei pensieri io vedo invece delle normali azioni condotte per facilitare l’intervento altrui, da “spazzaneve” (tanti anni fa scrissi una bella cosa sul bibliotecario spazzaneve, che ora dovrei riscrivere in una chiave più generalista). Ma le vere porte aperte non sono quella con la maniglia rotta, bensì sono il telefono e la posta elettronica, da cui passa gran parte del flusso comunicativo quotidiano. Il flusso telefonico è ovviamente meno governabile: capita non di rado che i cittadini compongano il mio interno per avere chiarimenti sulla concessione del bonus idrico o di qualche sgravio sulle bollette, perché hanno trovato il mio numero come quello del Dirigente titolare dell’intervento sostitutivo in caso di inadempienze da parte dell’ufficio relazioni con il pubblico: e poiché due più due fa quattro, devo essere proprio io quella da chiamare per sapere come mai la loro pratica non si è ancora conclusa. In questi casi il riorientamento è facile e veloce, ma faccio molta attenzione ad essere gentile e accogliente, anche se non saprò mai chi è la persona che mi ha cercato per sbaglio. Al di là di questi casi limite, vale il ragionamento per cui i cittadini vogliono essere ascoltati e ricevuti: per presentare un progetto, per raccontare la propria storia, per chiedere un aiuto, che nel mio caso non ha valenza sociale ma solitamente culturale. Anche in questi casi, il tempo è prezioso, e cerco di rideclinare le richieste, preferendo farmi mandare della documentazione da esaminare preventivamente, in modo tale da disporre alla svelta di quegli elementi utili per decidere, anche senza incontrarsi. Ma di solito chi chiede un incontro vuole avermi tutta per sé per almeno una mezzoretta, semplicemente per farsi conoscere, per illustrare la sua attività artistica e culturale, per evidenziare il valore della sua proposta. Questi incontri possono essere inefficienti, ma creano relazione, e proprio per tale ragione non li cancello dall’orizzonte ma li considero comunque utili, anche quando – com’è successo davvero una volta – avvengono con chi voleva fissare la presentazione del suo libro all’Auditorium Terzani, prima ancora di avere cominciato a scriverlo. La posta elettronica è uno dei canali più impegnativi al momento: in media ricevo 150-200 mail al giorno, e altrettanto ne produco. Quelle a cui non rispondo sono poche, e sempre a ragion veduta. Non è una scelta frequente: me ne sono resa conto quando, per mera cortesia, ho cominciato a rispondere alle aziende che avevano presentato una qualche proposta, dicendo che – nel caso fosse maturato in noi interesse – sarebbero stati contattati. Non l’avessi mai fatto: giù telefonate e richieste di call, perché chi risponde è il pesce che ha abboccato all’amo. Per questo non lo faccio quasi più, limitando le mie risposte a chi invia il suo CV per cercare lavoro: persone che non sanno che per entrare nella PA ci vuole un concorso pubblico.
Ora basta: il post è davvero lungo e qualche considerazione di bilancio su questi nove mesi da dirigente c’è. In sostanza, tutto è molto faticoso, ma sono orgogliosa del cambiamento che ho perseguito. Al di là della stanchezza, che mi coglie inesorabile ogni sera, prima dell’inizio di un film che non riuscirò a vedere, c’è il sentimento profondo di consolazione e gratitutine per avere avuto la fortuna di lavorare per la mia comunità. Ogni azione, ogni mail, ogni firma, serve per facilitare la vita di qualcuno, per offrire una opportunità, un servizio, un evento. Avere come “datore di lavoro” la propria città è un onore e un piacere: ed è proprio per questo che dopo dodici ore, scendendo dalla mia Cinquecento a San Felice, sorrido fra me e me per avere portato anche oggi il mio mattoncino alla costruzione di Pistoia.
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