Alcuni giorni fa mi è capitato di ricevere un invito a casa di conoscenti, durante il quale ho avuto modo di scambiare qualche battuta con una ragazza conosciuta in quella circostanza, che sembrava mostrare un interesse sincero nei confronti del mio lavoro. Per me è stato come un invito a nozze, una occasione speciale per godersi, almeno per qualche minuto, l’attenzione esclusiva di una giovane alle prese – come tutti i suoi coetanei – con l’ingresso e soprattutto con la permanenza stabile all’interno del mondo del lavoro.
Ormai giunta sulla soglia dei sessant’anni, mi attribuisco già da tempo il ruolo di mentore nei confronti di chi può portare tanto entusiasmo e voglia di fare, ma non ha potuto ancora accumulare quell’esperienza che permette di orientarsi con efficacia in un universo tutt’altro che lineare. Dunque, non vedevo l’ora di rispondere alle sue curiosità e alle sue domande dirette: il mio analcolico era destinato a scaldarsi nel bicchiere, ma sarei stata contenta lo stesso.
La vicenda ha preso subito una brutta piega, fin dalla prima domanda: “Ma tu fai l’orario della scuola, cioè, da giugno a settembre hai le vacanze?”, a cui ne sono seguite altre, tutte con il “ma” iniziale: una congiunzione avversativa usata non certo a caso. In effetti, la sua avversione al lavoro non avrebbe tardato ad emergere.
“Ma quanti giorni di ferie hai all’anno?”, “Ma devi mica lavorare anche di sabato?”, “Ma quanto ti danno di stipendio?”, “Ma quanti giorni di malattia puoi prendere all’anno?”.
La corrispondenza d’amorosi sensi tra mentore e allieva è svaporata in un amen: anzi, è mancato poco che la prendessi a sonori schiaffoni. Per prima cosa, mi son detta che non valeva la pena buttar via il mezzo Crodino che rimaneva ancora nel bicchiere, e quindi – in quest’ordine esatto – ho fatto un sorriso a 32 denti, ho sorseggiato l’aperitivo, ho piluccato una manciatina di noccioline e sono partita col Superpippone.
“Vedi, Cara, mi sembra che tu stia viaggiando contromano. Non è da questi aspetti che si parte per valutare se un lavoro può fare al caso tuo. Non è questo l’approccio giusto da tenere. Intanto i giorni di malattia si prendono solo quando si è malati davvero, e perciò non possono essere previsti a priori, né tanto meno programmati come fossero ferie aggiuntive spettanti di diritto. Ma soprattutto la prima e più importante domanda che devi porti è un’altra: Quali sono i miei talenti e le mie competenze attuali o potenziali che io posso mettere in campo per essere considerata adatta a questa o a quella posizione di lavoro aperta? Quali sono i punti di forza che io posso esprimere, e che potrebbero indurre un’azienda a scegliere me, rispetto a tante altre persone interessate a quel posto di lavoro? Qual è la mia “appetibilità” lavorativa? Parlo il cinese, l’inglese e il finlandese come l’italiano? Sono in grado di mettere a punto il progetto per una nuova release del sito web aziendale in due settimane? Qual è lo speciale contributo che sono in grado di apportare in quella compagine aziendale, rendendola da subito migliore di quello che è? Se io posso essere la persona giusta per quel posto, ecco che allora si può approfondire il tema dello stipendio, dell’orario, delle ferie, per capire se quell’azienda può essere giusta per me, o se magari devo scendere a qualche compromesso con i miei desideri di riposo, magari in attesa di qualcosa di più comodo. Se il tuo orizzonte di significati contempla soltanto i tuoi diritti e il tuo punto di vista, porterai questa chiave di lettura del mondo ovunque andrai: e sempre incontrerai persone che non ti capiscono, ambienti che non ti aiutano, superiori e colleghi che non ti apprezzano. Ed in effetti avrai perfettamente ragione, perché nessuno potrà capirti, aiutarti e apprezzarti, perché non sei una risorsa, sei un peso”.
Tizia se n’è andata senza profferir parola. Ho saputo dopo – mi hanno riferito – che le ero sembrata antipatica. E certo.