Volete la verità? Il vero motivo che mi ha indotto a fermare la freccetta di Netflix su questo titolo è legato al nome di Tatiana: la mia collega che ha in sorte proprio questo cognome americano, complici i tanti legami intessuti durante il secondo conflitto mondiale tra soldati statunitensi e donne italiane. Lei si chiama Wakefield, appunto, e quindi mi sono immaginata per un attimo che sarebbe stato buffo guardare un film col suo cognome in bella mostra, e dirle: “Tati, ho visto un film che si chiama come te”. Magari ne sarebbe uscito un messaggino divertente da inviare via whatsapp, una battuta per smorzare la noia di questi giorni in cui il Covid mi ha costretta a casa. Poi ho letto le due righe di mini-trama, e mi sono lasciata subito conquistare dall’idea di un uomo che decide di punto in bianco di sottrarsi alla propria vita per viverne una completamente diversa, all’insaputa di tutti.
Devo ammettere che è stato facile lasciarsi vincere da una trama del genere, perché non c’è nessuno, e dico nessuno al mondo, che almeno una volta nella vita, almeno per un momento, non abbia pensato di uscire dalla propria vita ed entrare in un’altra. A me sarà capitato mille volte: parto col desiderio di una vacanzina di un paio di giorni in un albergo vista mare, o vista montagna, per poi immaginarmi capace di mettere in ordine perfetto nella mia vita, e tornare alle mie cose con le idee finalmente precise su tutto. Gli abiti giusti, le soluzioni giuste, l’agenda perfettamente compilata, l’elenco dei sospesi dal quale si evidenziano le verifiche da fare, nessun ritardo e nessuna dimenticanza. Il mio sogno ad occhi aperti non lesina nemmeno sugli aspetti più propriamente estetici: la mia casa, al ritorno dalla vacanzina, è sempre uno splendore, e soprattutto ogni cosa trova sempre magicamente il proprio posto, senza mai stazionare fuori da armadi e cassetti troppo pieni. La mia fuga dalla realtà, però, non è mai per sempre, neppure nel sogno, e soprattutto non è mai contro la realtà: è pensata invece come favola in grado di curare tutte le ferite della mia infinita e innegabile imperfezione e limitatezza. Perché vorrei tanto essere perfetta, brava, capace e tutto, e invece faccio i conti con quei limiti che invece la vacanzina del sogno attutisce o addirittura trasforma in risorse.
Pur consapevole delle differenze del caso, mi sono apprestata a guardare il film con la piena consapevolezza che, sì, mi sarei facilmente identificata con quel signore qualunque desideroso di venir meno ai propri casini, almeno una volta nella vita. Quando poi ho visto dai titoli di testa che il film si ispirava ad un racconto di E.L.Doctorow, pubblicato sul New Yorker nel 2008 (qui il testo integrale), la partita era ormai bell’e vinta per Netflix: lo stile minimale di Doctorow mi ha sempre conquistata, così come il suo sguardo attento sullo scarto tra normalità e patologia, che avevo già apprezzato a suo tempo nel romanzo Homer & Langley, in cui aveva appunto ricostruito le vicende dei fratelli Collyer, ideali capostipiti degli infiniti esempi di accumulatori seriali (gli hoarders) che riempiono in silenzio le case dell’Occidente opulento e consumistico.
Ecco quindi il signor Wakefield alle prese con la sua vita normale, fatta di lunghi viaggi verso la sede di lavoro, lunghe giornate in ufficio, lunghe discussioni a casa con la moglie e le figlie ormai adolescenti. Basta un blackout sul treno che lo riporta a casa, per permettergli di rompere la routine di una qualunque giornata faticosa: invece di rientrare nella villetta dei sobborghi, simbolo del suo sforzo di adesione ad un modello di felicità in cui ha evidentemente creduto, decide di fermarsi per la notte nella soffitta sopra il garage: un luogo polveroso e dimenticato, dove trova archiviato tutto il passato familiare fatto di vestiti vecchi, giocattoli rotti, mobili fuori moda. Da questo piccolo regno dell’inutile ha modo di osservare, senza essere visto, i movimenti di sua moglie e delle figlie: la paura, lo sconcerto per la sua scomparsa, il contatto con la polizia, l’intervento della immancabile suocera, gli amici.
Howard Wakefield farà qualche uscita serale per recuperare in casa alcuni oggetti essenziali, imparerà la lotta per la sopravvivenza rapportandosi ad altri disgraziati del posto, così come scoprirà come lo spreco alimentare di certi vicini gli sarà essenziale per potersi cibare ogni giorno. Dall’alto del suo straordinario rifugio, scoprirà che la vita della sua famiglia va avanti senza di lui, e che al dolore per la sua perdita fa seguito la ripresa e la ripartenza. Trascorre mesi nel suo regno, facendo i conti col freddo e il gelo dell’inverno, col rischio di venire scoperto, o – peggio ancora – di venire completamente dimenticato e digerito nell’enorme tritacarne della vita quotidiana. Poi scatta un clic che all’improvviso genera la fine della storia, con la stessa causale non chalance che l’aveva avviata: una sera recupera dal suo studio tutti gli ammennicoli della civiltà (all the impedimenta of citizenry, scrive grandiosamente Doctorow): contanti, carte di credito, chiavi dell’automobile, tutto ciò che gli serve per garantirsi vestiti nuovi, un taglio di capelli adeguato, un rientro nella normalità. Il racconto, come il film, si ferma esattamente nel punto più intenso della storia: l’uomo, finalmente sbarbato e ripulito, fa girare le chiavi nella toppa e si rivolge alla famiglia con uno splendido: Hello, I’m home!
Howard è tornato: se n’è mai andato? – viene da chiedersi. La normalità da cui ha inteso fuggire non è stato forse l’oggetto più grande del suo desiderio da clandestino? La sua clandestinità è stata più un esperimento solipstico che un reale rifiuto dei valori connessi agli impedimenta of citizenry a cui si guarda bene di rinunciare. La sua parentesi dalla vita ordinaria non è stata una ricerca di un ordine alternativo, di una diversa scala di valori: è stata un gioco crudele che non gli ha portato in dote neppure la minima consapevolezza delle proprie responsabilità. Wakefield ha perso la partita con se stesso, prima che col mondo: non è stato in grado né di aderire al proprio destino né di cambiarlo, ha solo fatto finta di giocarci, per poi tornare a fare il bravo, sperando di passarla liscia. E là dove finisce il racconto dello scrittore, e il film della brava Robin Swicord, comincia il lavoro del lettore: come avrei reagito io, fossi stata Jennifer Gardner, al rientro di Howard? Gli avrei dato tante legnate nel groppone, prendendo direttamente l’albero di natale come arma contundente. Gli avrei tolto gli impedimenta per lasciarlo davvero solo e ramingo a pensare ai danni causati, riducendolo per sempre in povertà con un divorzio di quelli scritti tutti a lettere maiuscole. Oppure – dipende da come si legge la storia, immaginandola come un sogno ad occhi aperti – gli avrei detto di correre a dare una mano con le decorazioni. Che il Natale è alle porte.